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Lo strano caso del pudore (vicario) e della sua atmosfera

Num°05 SHAME
schmitz

Il luogo comune, robustamente nutrito da recenti vicende politiche e mediatiche, è che il pudore sia un fossile emozionale e quindi addirittura un deficit comportamentale rispetto all’ingiunzione presuntivamente egualitaria della società di massa e del suo ipertrofico io a «sapere tutto, mostrare tutto, vedere tutto». Eppure si continua pur sempre ad «arrossire, annaspare, balbettare, parlare con voce anormalmente bassa o alta, o con voce tremula, o con voce rotta, sudare, impallidire, battere le ciglia, avere tremito alle mani, muoversi in modo esitante o vacillare, essere distratti, dire papere». Si continua cioè pur sempre a provare vergogna e, anche se attraverso una sintomatologia meno esplicita, ad avere pudore. Laddove infatti la vergogna è «(auto) presentazione dell’impotenza del soggetto», totale dipendenza dello gnosico dal patico nel corpo proprio (Leib), il pudore è ovviamente un sentimento più “riservato” e delicato, non costretto a uno strategico auto-occultamento quanto la vergogna. Dal punto di vista del pudore, anziché di civiltà della vergogna (dipendenza sociale) o della colpa (indipendenza individuale), ci si dovrebbe infatti forse limitare a parlare di civiltà relativamente più introverse e relativamente più estroverse.

Per quanto solo sottilmente (solo leiblich) espressivo, il pudore possiede tuttavia una propria evidenza autoriflessiva, assicurata dal coinvolgimento affettivo (ci si sente a disagio) e da un’involontaria inclinazione alla contrazione e alla dissociazione (ci si vede da fuori). Per studiosi come Heller, Nussbaum e soprattutto Duerr si tratterebbe di uno stadio necessario, collocabile intorno al secondo anno di vita, sulla via ontogenetica dell’autocoscienza e, proprio in virtù di un’autoriflessività viceversa assente in stati “estatici” quali la collera e la tristezza, dotato di un valore prolettico rispetto all’intima dialogicità di ogni più matura coscienza morale, sempre sospesa tra realtà e modelli ideali. Anziché essere estinto, il pudore rivela semmai una natura nomade, risultando oggi emigrato, fatte salve alcune costanti circoscritte, dalle sfere tradizionali dell’onore, della sessualità e della coerenza a quelle, le sole apparentemente davvero identitarie, del successo e della fitness corporea. Perfino l’esibizionismo più impudico, adeguatamente distinto ovviamente dalle provocazioni estetiche intenzionali, potrebbe non essere altro che un atteggiamento patologico contrafobico, che cioè compensa la disistima provata attenuandone conseguenze quali la depressione e la fobia sociale, la correità collettiva e la psicosi paranoica. Sempre meno imbarazzato dalla nudità e dall’insuccesso scolastico, l’individuo, sentendosi forse per la prima volta integralmente responsabile della propria biografia, è oggi pudico piuttosto nell’ammettere di non essere nessuno, nel sentirsi, quando si vede obbligato a chiedere aiuto, troppo dipendente dagli altri in una società le cui massime trasgressioni sono appunto l’imperfetta padronanza di sé e l’insufficienza delle proprie prestazioni.

Lo strano caso del pudore (vicario) e della sua atmosfera

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