
Nella prospettiva greca del primo arcaismo l’idea più vicina a quella di “pudore” viene espressa attraverso il campo semantico della parola aidós (αἰδώς, traduzione provvisoria: “vergogna”, “ritegno”) che descrive l’atteggiamento che si sviluppa in un soggetto nel momento in cui egli si rende conto che un proprio comportamento sarà oggetto di biasimo. Dico atteggiamento, e non emozione, a ragion veduta. Aidós infatti non identifica un dato esclusivamente psicologico; è anzi una parola sfuggente, dai contorni sfrangiati, in parte anche intraducibile, che si trova applicata a un ventaglio di situazioni tanto vaste da far dedurre che la sua rilevanza nel sistema di valori della grecità arcaica fosse enormemente più ampia rispetto a ciò che potrebbe essere, ad esempio, il pudor latino o ancora di più il concetto moderno di pudore, ad esempio quello espresso dall’inglese shame.
Secondo la nostra accezione, la vergogna appartiene a un nucleo ristretto di emozioni fondamentali che a tutta prima si direbbero involontarie, incontrollabili, interiori; non è nel potere di una persona impedire che insorga la vergogna, come non è in suo potere impedire che insorgano la rabbia o la paura. Queste emozioni si possono forse gestire, ma non si può evitare che si sviluppino istantaneamente e quasi automaticamente, accompagnate da un senso di disagio o sofferenza.
Se però ci portiamo alle origini della cultura greca, la prospettiva cambia radicalmente. Com’è ben noto, Eric Dodds, in pochissime ma importanti pagine, ha coniato la definizione di shame-culture per definire appunto il sistema di valori tipico della mentalità omerica. In Omero aidós è ben lungi dall’essere relegata a una dimensione soggettiva dell’io; al contrario, appare come il più efficace principio morale (o pre-morale) che regola le relazioni di un individuo verso il mondo e costituisce il principale elemento regolatore dell’equilibrio sociale, oltre che il motore della psicologia eroica. Nel sistema di valori dell’epos omerico, infatti, aidós ha la sua radice nella società, non nell’individuo, e riflette un insieme di codici comportamentali condivisi dalla collettività. Non si tratta dunque di un’emozione strettamente personale, ma di un meccanismo collettivo, al punto che potremmo dire che aidós non esiste come emozione in sé, dal momento che non è relegato nell’anima del soggetto che prova emozioni. Ci si vergogna, infatti, solo quando qualcuno assiste alla nostra vergogna o al nostro disonore; come scriveva appunto Eric Dodds «tutto ciò che espone l’uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi simili, tutto quello che gli fa perdere la faccia è sentito come insopportabile». Per provare vergogna è dunque necessario un soggetto estraneo all’io che gli faccia da specchio.
Altre considerazioni sono poi opportune. L’aidós omerica ha solo in parte una relazione con la sfera sessuale, e non è un atteggiamento prevalentemente femminile, anzi il contrario. Ben è vero che aidós si applica alla riservatezza che una donna è tenuta a osservare nei suoi comportamenti verso il mondo; ad esempio, quando, in una scena boccaccesca, Omero descrive la trappola con cui Efesto imprigiona con invisibili catene sua moglie Afrodite colta in flagrante adulterio col gagliardo amante Ares, per poi esibirli nudi e legati sul letto dell’ignominia, le dee si rifiutano di assistere allo spettacolo aidói “per pudore”. Ma nella grande maggioranza dei casi aidós funziona in rapporto a maschi, e in contesti tutt’altro che privati.
Non è l’amore per la patria, o il senso dell’onore, o una legge interiore, ciò che induce Ettore ad affrontare la morte nel duello con Achille, ma precisamente il pudore, aidós: «ora che per la mia follia ho mandato in rovina l’esercito – dice tra sé e sé – io mi vergogno (aidéomai) davanti ai Troiani e alle Troiane dal lungo peplo, pensando che un giorno qualcuno meno forte di me possa dire: Ettore, troppo presumendo della sua forza, ha rovinato l’esercito. Ah sì, così diranno, e allora è molto meglio per me affrontare Achille e tornare dopo averlo ucciso, o essere ucciso da lui, ma con gloria, davanti alla mia città». È appunto il modello dell’aidós, non un sentimento irriflesso, ma la conseguenza di una volontaria e ponderata assunzione di responsabilità, che soccorre un uomo nel momento della scelta decisiva. Come dice un altro guerriero nel cuore della mischia: «compagni, ora ognuno di voi si ponga nel cuore pudore e vergogna, perché è sorta una lotta terribile!». In casi come questi, in cui tutto si gioca sotto gli occhi di tutti, vergogna, ritegno, pudore, tutto ciò che è significato dalla parola aidós funge da freno morale o se vogliamo dire così da imperativo etico. È la stessa motivazione (anche se la parola aidós non compare nel testo) a indurre l’eroe Fenice a non uccidere il padre Amintore, che l’ha appena maledetto: non è l’orrore del parricidio, o un vincolo morale, la prospettiva del rimorso che l’avrebbe poi perseguitato a fermare la mano del figlio, ma appunto il timore – o vergogna – di «essere chiamato parricida» dalla gente.
Omero e la cultura del pre-pudore