
Corre l’anno 1854 quando l’«uomo immaginoso» per antonomasia, Paolo Mantegazza, dà alle stampe un volume, o meglio il primo di una serie di volumi destinati a destare grande scalpore. Insofferente del materialismo di marca tedesca, polemico nei confronti di Büchner, Mantegazza mostra d’avere più simpatia per le teorie darwiniane che hanno saputo «poco a poco e irresistibilmente» trapassare dal campo scientifico a quello delle «scienze sociali, delle politiche e delle filosofiche», arrivando in ultimo sino all’«arte» e alla «critica d’arte». Non solo: fin da subito egli ha fatto proprie le idee di Claude Bernard che vuole arte e scienza «sorelle affettuosissime» pronte a collaborare alla nascita della nuova letteratura. Mantegazza non ha dubbi: è giunto il tempo della «psicologia dell’avvenire», che altro non sarà se non una «pagina della fisiologia», da cui potrà scaturire il nuovo romanzo, quello «fisiologico», in grado di far sentire al lettore «il palpito dei visceri e il caldo del sangue». Insomma da un lato ci sono quegli scrittori che «afferrano la vita umana nelle sue apparenze», quelli «drammatici», dall’altro vi sono coloro, i «fisiologici», che «ti danno la vita vivente». In discussione è, naturalmente, il nome di Zola, che, a suo tempo, Mantegazza non aveva esitato a mettere sul tavolo anatomico per offrirne al lettore un’«analisi biologica».
In proprio il «poligamo di molti amori intellettuali» Mantegazza aveva pubblicato Un giorno a Madera. Una pagina dell’igiene d’amore (1868), romanzo destinato ad avere molta eco nella letteratura di fine Ottocento, al punto da essere frequentemente richiamato da quei narratori che non disdegnano coniugare letteratura e scienza: mi limito a un nome noto, quello di Matilde Serao, che in Fantasia fa dire alla sua protagonista, Lucia, d’aver letto quel romanzo che l’ha fatta «piangere e pensare».
Ma l’«anfibio della scienza e delle lettere» – è questa un’altra suggestiva definizione coniata da Mantegazza per se stesso – non è certo interessato a farsi cantore di storie d’amore più o meno infelici: ciò che gli interessa davvero è l’indagine “scientifica” di quella galassia che ruota attorno al fenomeno amoroso. In particolare lo incuriosisce un «sentimento» che gli appare, fin da subito, indisgiungibile dall’amore, il sentimento del pudore. Così, nel primo di quella serie di saggi a cui facevo cenno in apertura, dato alle stampe nel 1854, la Fisiologia del piacere, Mantegazza dedica un intero capitolo, il quarto, ai «piaceri che provengono dai sentimenti misti e di prima e seconda persona, e specialmente delle gioie del pudore». «Il pudore […] ha in se stesso la propria ragione» esordisce Mantegazza «e si può definire un artifizio della natura per renderci più seducenti le gioie fisiche dell’amore, velando col misterio una funzione che, soddisfatta pubblicamente, doveva essere triviale e fors’anche ributtante». Il pudore dunque come sentimento che abbellisce e nobilita la passione amorosa. Per questo «ogni volta che il pudore è soddisfatto ne’ suoi bisogni, l’uomo prova un piacere che si esprime con un senso di raccoglimento, e che rassomiglia alle gioie che noi proviamo nel riscaldarci a una temperatura tiepida quando rabbrividiamo ancora dal freddo». Ma fin da subito Mantegazza avverte come «il sentimento del pudore» non sia solo questo e lo «associa ad alcuni elementi intellettuali»: se da un lato il pudore «si compiace […] della verecondia del corpo», dall’altro l’idea stessa del pudore si dilata «anche alle idee, alle immagini e a tutti gli oggetti fisici e morali che possono essere decenti o indecenti». Non è un’osservazione da poco, perché lascia intendere, nemmeno tanto sottotraccia, come questo «sentimento» sia destinato a coniugarsi non solo con quello, passionale o meno che sia. Ma i tempi non sono ancora maturi per andare oltre questa prima osservazione.
«Nell’arte il bello, nella scienza il vero»: «Alla ricerca della verecondia»