
Senso di vertigine, udito ovattato, spossatezza.
Ciò che si ha intorno – persone, cose, luoghi – sembra indefinito, lontano, appartiene a una dimensione che non ha nessuna importanza.
L’istante si dilata in un tempo infinito, il centro del proprio sé fluttua in modo disordinato al di là dei confini sensoriali del corpo. Il viaggio è iniziato e non c’è modo di intervenire con autocontrollo, razionalità, contegno: il sé profondo tornerà quando il percorso sarà giunto al termine.
Questa è la saturazione esperita dal corpo. Sono sensazioni cariche di vissuti di sofferenza. Vengono narrate dalle donne accolte nelle case di fuga per “vittime” di violenza; dalle donne che denunciano le organizzazioni criminali che ne sfruttavano il corpo a fini sessuali (prostituzione) o economici (accattonaggio); dalle donne che, ad un certo momento della vita, mettono in discussione la realizzazione della propria individualità in ambito lavorativo o affettivo.
Storie diverse, donne diverse che, tuttavia, offrono narrazioni tremendamente simili, accomunate da un senso di precarietà intesa come «esperienza congiunta di insicurezza (della propria posizione, diritti, qualità di vita), di incertezza (rispetto alla loro stabilità presente e futura) e di vulnerabilità (del proprio corpo, della propria persona e relative appendici: i possedimenti, il quartiere, la comunità)».
Precarietà che assume forme differenti, ma viene generata da una matrice comune: l’essere in relazione con l’altro o con gli altri. Relazioni che, snaturate, arrivano a «riempirsi oltre i limiti del giusto o del necessario» e così facendo conducono i soggetti, individuali e collettivi, al «limite massimo della capacità di sopportazione o di assorbimento». Limite che viene travalicato in diversi modi. In maniera improvvisa attraverso un’esperienza scioccante «di particolare gravità che compromette il senso di stabilità e continuità fisica e/o psichica di una persona o di intere comunità». Oppure a seguito dell’esposizione a una pressione ambientale continuativa, che supera sia soggettivamente (mancanza di risorse) che oggettivamente (eccessivo peso) le capacità individuali di fronteggiamento. O ancora, all’interno di legami traumatici di dominio tra due soggetti, in cui comportamenti partecipativi e affettuosi si affiancano a episodi di intenso abuso di uno sull’altro.
In tutti i casi, si tratta di situazioni relazionali sature caratterizzate da desiderio di possesso e prevaricazione, che portano a concepire i legami come «cose da essere consumate, non prodotte» e che, attualmente, fondano tanto i rapporti interpersonali quanto i legami socio-politici.
Alla luce di ciò, per scorgere i segnali della saturazione, individuale e collettiva, occorre esercitare un’attenta analisi critica nel quotidiano, a partire dal concetto di pari opportunità fino ad arrivare al concetto di «qualità di vita, e in particolare quella derivante dal lavoro e dall’occupazione».
Quando la saturazione è donna