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Saturazione: la missione ha qualcosa da dire?

Num°06 SATURATION
KiberaNairobi

Il termine saturazione definisce il processo attraverso cui si raggiunge la massima quantità possibile di un “qualcosa”, in un determinato ambiente. Il punto di saturazione segna il limite ultimo, la soglia di tolleranza. Un oggetto, una proprietà, un sentimento, una facoltà, un atteggiamento interiore incontrano, quando saturi, l’ineluttabilità del proprio limite, della propria finitezza. Nel caso dell’essere umano e delle sue mozioni dell’animo, il punto di saturazione rappresenta un limite alla speranza, superato il quale quest’ultima si vedrebbe privata della condizione di possibilità che, di fatto, la invera.

“Il troppo stroppia”, sentenzia un detto della sapienza popolare che condanna l’eccesso come vizio e ci ricorda che il punto di saturazione è contiguo al “troppo”, spazio estremo in cui anche un bene corre il rischio di contaminarsi e di trasformarsi con facilità nel suo esatto contrario. Un figlio può facilmente essere rovinato dal troppo amore che gli vogliono i genitori, così come una relazione satura di bontà corre il rischio di tramutarsi in paternalismo o di soffocare la libertà altrui e il diritto di ognuno a commettere i propri errori. Le relazioni che si saturano diventano asfissianti e dissolvono lo spazio destinato al dialogo e all’altrui libertà.

Nonostante la storia della chiesa abbia purtroppo annoverato non pochi episodi in cui gli agenti della missione si sono rivelati strumenti di saturazione e non soggetti di liberazione, il missionario, per carisma e vocazione, riceve insieme al mandato il compito di “fare spazio”, ricreando intorno a chi si sente soffocato e oppresso l’armonia delle origini di cui parlano molti racconti o narrazioni mitiche, tra cui quella giudeo-cristiana. In un mondo che si sta sovrappopolando, in cui metà della popolazione si sta concentrando nelle grandi aree urbane creando enormi distese di invivibili ed asfissianti baraccopoli, questa missione diventa “fisicamente” evidente e necessaria.

1. Alcuni contesti di saturazione e possibile azione missionaria

Un primo esempio di saturazione in cui la missione può avere qualcosa da dire riguarda proprio l’habitat. Soweto è uno dei tanti slums che circondano Nairobi, agglomerati urbani popolosissimi ma che non compaiono sulle mappe, perché oggi ci sono e domani possono sparire e tornare nel nulla, inghiottiti dalle logiche di mercato e dalle ruspe dei bulldozer. Di importante Soweto ha solo il nome, ereditato dalla più importante township di Johannesburg, in ringraziamento per la collaborazione offerta in passato da alcuni educatori sudafricani ai processi di sviluppo dello slum. Soweto vive, anzi, viveva, tutti i problemi tipici di una bidonville africana: povertà estrema, densità di popolazione eccessiva, mancanza dei più elementari servizi. L’ambiente dello slum è forse uno di quelli in cui l’idea di saturazione si rende più esplicita, fisicamente percettibile tramite tutti i cinque sensi. Nello slum si soffoca perché è pieno a più non posso, perché le baracche sono una sull’altra e l’estrema promiscuità provocata dalla sovrappopolazione è sovente causa di violenza. Rendere la vita più accettabile a Soweto ha voluto dire “sfoltire”, lavorare sulla gente per coscientizzarla a trovare spazi che rendessero meno satura e soffocante la vita di tutti i giorni. Allargare le strade, creare più luce, far uscire la gente dalle baracche con occasioni di lavoro all’esterno di esso ha significato e significa far respirare le persone, dare ad esse la possibilità di muoversi, scegliere, decidere, fare comunità.

Saturazione: la missione ha qualcosa da dire?

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