
L’economia non è più soltanto una sfera differenziata del mondo moderno, ancorché molto invadente. Non è più nemmeno la struttura che condiziona le sovrastrutture politiche, culturali e sociali. Più radicalmente la logica economica è diventata nell’ultimo trentennio la logica della tecnica governamentale neoliberale che definiamo bioeconomica perché produce le nostre soggettivazioni, le forme di vita, l’immaginario e il simbolico lasciando residui di Reale difficili da rintracciare. Come è avvenuto tutto questo? Quali sono le categorie filosofiche per problematizzare questo dato?
Questo saggio si interroga sul cambiamento radicale del significato e del ruolo dell’economia in relazione alle soggettivazioni e al legame sociale e politico. L’ipotesi di fondo è che ci sia nella storia occidentale un paradigma teologico-economico che affianca quello più rappresentato della teologia politica. In esso l’economia adempie il ruolo, che oggi giunge a pieno compimento, di logica di governo funzionale che non si esaurisce nella economia propriamente detta, dunque nella sola materialità della produzione, ri-produzione e distribuzione dei beni. In questo percorso la svolta verso la produzione bioeconomica delle vite è segnata dalla prospettiva marginalista che sostituisce la centralità dei bisogni con il nodo del desiderio. E del suo governo razionale. Il saggio mette poi a fuoco le dinamiche della soggettivazione all’interno del codice economico, acefalo luogo di controllo dei poteri sociali apparentemente anarchici, perché si possano rinvenire in esse spazi per un ripensamento.
1. Teologia politica e teologia economica
L’economia eccede la sua definizione corrente. Il ruolo insieme necessario e ancillare che la tradizione a lungo le attribuisce giustifica forse quella strana opacità che avvolge le radici cristiane dell’economia, quella teologia economica sulla quale solo di recente, sollecitati dagli studi foucaultiani sul pastorato, si comincia a guardare. Non che non fossero noti tutti i passaggi teorici e pratici di questo percorso, ma è illuminante evidenziare come quel percorso commisto di teologico e di terreno, parallelo rispetto alla parabola della teologia politica e della sua secolarizzazione, fornisca le categorie per problematizzare filosoficamente l’economia oggi, quella economia che si autorappresenta in modo laico, scientifico e naturalistico.
Le ricerche foucaultiane rappresentano un punto di avvio molto importante per la valorizzazione dell’intreccio della pratica economica con quella di governo e per la sua ascendenza nel pastorato cristiano; ma rappresentano anche un aperçu sulla bioeconomia contemporanea neoliberale che sembra (ma solo in parte è) così lontana dal governo pastorale, che infatti Foucault vede rovesciato in pratiche di autogoverno. Lasciando però molti interrogativi in sospeso.
C’è uno snodo sul quale indaga Agamben alla ricerca delle radici cristiane dell’economia intesa come governamentalità: la teologia politica cristiana acquisisce attraverso la lettura patristica dell’incarnazione del Cristo e del dogma trinitario una valenza “economica” che trasforma il criterio escludente, proprio dell’ontologia politica, in quello inclusivo governamentale e promozionale della vita e della salvezza. E lo inserisce in un grande progetto di natura pragmatica, non inerente all’essere ma alle condotte, non all’ontologia, all’etica e al diritto ma all’economia: una economia di salvezza, mediata dal Cristo, invisibile divenuto visibile. La natura trinitaria del monoteismo così non esclude la pluralità ma la tiene nel proprio seno, articolandola in un modo inclusivo e gerarchico, governamentale, che insegue la pluralità nei percorsi pratici dell’economia. L’incarnazione del principio di verità non si limita a manifestarsi nella carne del Cristo, ma si dispiega come opera di mediazione e salvazione, scendendo dalla verticalità dell’essere al tortuoso iter delle cose da fare, nella pluralità e nella casistica di provvidenze differenziate che si misurano nell’efficacia dell’opera, non nella sua “somiglianza” alla sfera del bene. È un dispositivo a tre poli: ai soggetti destinati all’invisibile piano provvidenziale, si presenta – cioè si fa visibile e concreto – un potere che non è l’Imperscrutabile, l’assoluto, ma auctoritas, l’adattatore, il gestore del piano di incremento della vita. Una figura, quella del potere-che-serve, che fa da pastore, che non parla a nome di se stesso ma che si subordina ad una verità per un compito pratico. Il punto è che così si trasforma la logica del potere, che viene piegato alle opere plurime e quotidiane di governo delle vite all’interno di un grande piano funzionale alla salvezza completamente sbilanciato sull’adattamento alle vite di ciascuno, omnes et singulatim, e misurato sulla coppia successo/fallimento piuttosto che sulla giustizia; sulla cura del particolare e dell’eccezione più che sulla coerenza e generalità della legge. La sua chiave sta nella “motivazione”, nel fine, che prevale sull’essenza stessa.
L’economia come logica di governo