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La trasformazione interculturale dell’economia

Num°07 ECONOMY
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1. Un’idea di cambiamento

Nella nostra situazione attuale c’è un grande bisogno di andare oltre i discorsi di pura denuncia del sistema economico vigente. Discorsi del genere per lo più si concludono con l’evocazione di valori generali, senza approfondire le questioni cruciali, che sono relative all’individuazione dei soggetti, dei metodi e dei passaggi necessari per il cambiamento dell’economia e della mentalità che la legittima.

Nella riflessione che qui presento vorrei dare un piccolo contributo a vedere la strada che può portarci dalla trappola attuale a una società liberata. La cosiddetta “crisi” in realtà è una trappola e, quando finalmente ci si accorge di essere imprigionati, è necessario cercare una via d’uscita completamente differente rispetto a quella che è stata seguita – più o meno involontariamente – per restare intrappolati. Cercherò di offrire qualche elemento di una visione d’insieme che abbracci sia l’orizzonte di un’economia alternativa, sia soprattutto il cammino che conduce alla sua maturazione storica. Proprio per questo tipo di intenzione il mio discorso si svilupperà per estensione e per dare il senso dell’insieme, come si fa nel delineare una mappa, e non potrà approfondire nessuno dei punti toccati. Mi interessa solo dare un’idea del percorso, rimandando gli approfondimenti specifici ad altre occasioni e soprattutto al contributo di molti altri studiosi che si muovono su un piano interdisciplinare e interculturale.

Il passo inaugurale del cammino a cui penso esige di risvegliarsi dalla narcosi indotta nella mentalità corrente e smettere, intanto, di parlare di “crisi”. Anzitutto perché la parola non spiega, ma nasconde la realtà: la usiamo infatti per dire gli effetti della crisi, ma anche per dire che la crisi stessa è la loro causa, quindi non spieghiamo nulla. Poi perché noi nella parte comunque privilegiata del mondo ci permettiamo ora, essendo stati colpiti da qualche anno più direttamente dalle iniquità del capitalismo globale, di parlare di “crisi”. Gli altri popoli della terra subiscono tali iniquità da secoli e mentre ciò accadeva non ci veniva in mente di usare questa parola. Infine, perché una parola del genere fa sempre pensare a un momento problematico passeggero, che presto consentirà il ritorno alla condizione positiva precedente. Ma questo è falso e se non cambiamo logica complessiva la “crisi” potrà solo aggravarsi.

A mio avviso, il capitalismo si è ormai rivelato una forma di civiltà sbagliata, irriformabile. Come stiamo vedendo, essa possiede una logica implacabile che, una volta attuata fino in fondo, mette l’umanità in una strada senza uscita, un’autentica trappola. Ecco perché questo termine mi sembra più onesto e istruttivo. In breve: non siamo in crisi, siamo in trappola.

Non si tratta però di mettersi immediatamente a disegnare le linee di un’altra società futura. L’approccio che qui adotto non è quello tipico del pensiero utopico, ma per un verso è quello proprio della dialettica negativa nel senso proposto da Theodor W. Adorno. Per altro verso il mio discorso raccoglie le istanze dell’antropologia interculturale per come si delinea nell’ascolto delle diverse tradizioni filosofiche e teologiche del mondo.

Il metodo della dialettica negativa comporta di portare l’attenzione sulle situazioni di sofferenza degli esseri umani e anche della natura nel quadro del sistema attuale, ricavandone, per converso, l’indicazione di ciò che sarebbe adeguato alla loro costituzione e alla loro dignità. Non a caso è proprio su queste indicazioni che convergono le sapienze antropologiche cresciute, benché spesso tra molte resistenze, nelle culture del mondo.

Riferendosi al suo metodo Adorno scrive: «il suo criterio è ciò che i soggetti patiscono oggettivamente come loro sofferenza». Ascoltare questa sofferenza, individuandone le cause, è un passaggio indispensabile per cominciare a vedere l’umanità reale e la via verso una società diversa. Come ha osservato Clive Hamilton, «la disgiunzione tra ciò che noi consapevolmente crediamo di essere e ciò che veramente siamo è alla radice dell’infelicità e della sofferenza umana».

Il compito fondamentale del pensiero critico è quello di cogliere questo dissidio profondo non solo per combatterne le cause, ma nel contempo per riconoscere e promuovere ciò che attua la nostra dignità. Il “no” al male nelle sue mille forme storiche e il “sì” all’umanità e al mondo vivente, nella loro possibile armonia, procedono di pari passo. Assumere questo criterio della dignità e del bene comune, a mio avviso, è decisivo non soltanto per criticare il sistema economico attuale e i suoi inganni, ma anche per riaffermare quella stima per l’umanità che è fondamentale per vedere in profondità come debba configurarsi una società che non la tradisca. Quando viene meno tale stima, ogni dominio e ogni menzogna sembrano ragionevoli o quanto meno necessari.

La trasformazione interculturale dell’economia

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