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Economia, politica e società nella stagione della grande crisi infinita

Num°07 ECONOMY
cohousing

1. Introduzione

Fino a quarant’anni fa quasi tutti i quotidiani italiani non avevano pagine dedicate all’economia. La classe dirigente del Paese era costituita soprattutto da giuristi o medici, non certo da economisti: i membri delle future élite uscivano dai licei e si indirizzavano appunto alle facoltà di giurisprudenza e medicina, mentre a quelle di economia si poteva accedere, prima della riforma, anche provenendo da istituti tecnici. Erano studi, insomma, che non godevano di grande considerazione o prestigio.

Come è stato possibile che, dopo appena quarant’anni, le élite mondiali (a eccezione della Cina) siano oggi formate da economisti che non solo controllano le attività economiche e finanziarie ma svolgono attività di governo? In che modo l’economia è riuscita a imporsi sulla politica, screditandola fino a farla apparire scollegata dalla realtà, e a portare l’umanità globalizzata sull’orlo di un crac finanziario che ha travolto prima di tutto la classe media e i bilanci degli Stati (ancora?) sovrani e ciononostante a rimanere portatrice delle sole ragioni che hanno titolo nel dibattito? Che nesso c’è fra tutto questo e la Ragione? Con le poche righe che seguono vorrei proporre, su tali questioni, un punto di vista che può sembrare eretico ma che, alla luce delle crescenti contraddizioni della società capitalistica e dello stato di sofferenza e rabbia in cui versano parti crescenti della popolazione dei Paesi del cosiddetto Primo Mondo, comincia a trovare sempre maggiore considerazione, soprattutto tra chi vuole tenersi distante dagli approcci demagogici e populisti, peraltro tumultuosamente crescenti.

2. Perché l’economia è diventata così importante (non solo in Italia)

Cercando di individuare i macrofenomeni che possono aiutare a capire perché tutto ciò sia avvenuto e stia continuando ad avvenire corriamo naturalmente il rischio di una certa superficialità, ma nel caos occorre cercare punti di riferimento. Questo scritto non pretende altro che fornire uno spunto, nel migliore dei casi una traccia per ulteriori sviluppi e approfondimenti.

L’affermazione del primato dell’economia, come paradigma di governance mondiale, perlomeno ponendoci in una prospettiva di analisi storica, è un riflesso della vittoria del sistema capitalistico sul quello comunista, verificatasi alla fine degli anni ’80. Le sue premesse concettuali vanno rintracciate nell’affermazione politica del pensiero liberista elaborato appena una decina d’anni prima, pensiero che ha trovato attuazione innanzitutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. A promuovere una “economia di libero mercato” come via per il miglioramento delle condizioni dell’Umanità è stata in particolare la scuola che fa capo a Milton Friedman, il cui pensiero deve molto alla grande scuola liberale austriaca di von Mises e von Hayek. L’evoluzione intellettuale del suo pensiero è poi certamente inserita nelle dottrine economiche liberali fondate in particolare sulla tradizione della filosofia morale – a sua volta inscrivibili in un percorso il cui iniziatore fu Adam Smith nella Gran Bretagna a cavallo fra XVIII e XIX secolo. La scuola di Friedman, decisamente minoritaria negli ambienti accademici anglosassoni fino alla metà degli anni ’70, ha saputo sviluppare intensi rapporti con il grande capitalismo americano, in particolare con quello finanziario, che ha visto nelle idee di libertà e di libero mercato che essa andava promovendo uno straordinario supporto teorico per la legittimazione dei propri interessi. Da allora il pensiero economico è diventato prima di tutto pensiero politico (non a caso si parla di economia politica) o perlomeno di rilevante interesse politico.

La forte crescita del ruolo della finanza e delle banche, consentita dagli sviluppi tecnici (in particolare con l’uso degli strumenti telematici e con la diffusione dell’informatica) realizzatisi a partire da quegli anni ha reso questo connubio sempre più stretto e necessario. Ma se a Friedman interessava soprattutto un’attività di ricerca e di divulgazione tesa a convincere l’opinione pubblica della bontà delle proprie idee nell’interesse della collettività (si pensi alle magistrali pagine di Capitalismo e libertà), i suoi successori hanno saputo sfruttare l’opportunità che si offriva loro di assumere la gestione delle leve del potere finanziario, o quantomeno di prendervi parte attiva. Il tutto in un processo di tipo osmotico, nel quale accademia e poteri economico-finanziari appaiono strettamente interdipendenti. Proprio la maggiore disponibilità di risorse finanziarie per la ricerca economica, insieme al fascino del potere, ha reso gli studi economici sempre più interessanti per le nuove élite dell’area anglosassone. Le facoltà di economia e il pensiero liberista sono diventati il centro di legittimazione concettuale degli interessi del potere economico e finanziario, fino a divenirne parte integrante.

Economia, politica e società nella stagione della grande crisi infinita

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