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I beni comuni fra economia, diritto e filosofia

Num°07 ECONOMY
Tragedyofthecommons+Science

Strano potere delle parole. Concetti capaci di sovvertire un senso apparentemente immutabile, stabilito, istituzionalizzato, che a volte mutano i processi storici, altre volte rientrano nel deposito delle occasioni perdute. Nell’occidente secolarizzato della modernità, i concetti potenzialmente sovversivi sono legati al mondo dell’economia, la attraversano e la collegano con la politica, con il diritto e con la filosofia, costruendo senso comune istituzionale. Due esempi per intenderci, tratti dalla storia recente: privatizzazione e sostenibilità. Nel primo il concetto sovverte. Nel secondo, addomesticato, poco a poco si spegne. Quale sorte toccherà ai beni comuni?

La privatizzazione segna il contesto in cui oggi viviamo. Rompe con un intero cammino di civiltà in cui la speranza era riposta nello Stato sociale. Il capitalismo aveva dato prova della sua spietatezza; lo sfruttamento, fondato in una nuova scienza, l’economia politica, aveva raggiunto limiti insopportabili. Si era formato un proletariato dotato di coscienza di classe. Lo Stato non poteva più limitarsi a garantire la proprietà privata se non rischiando di perdere il controllo dell’ordine sociale, come sarebbe infine avvenuto, ma soltanto in una parte del mondo, nel 1917 con la presa del Palazzo d’Inverno. A cavallo del secolo si diffonde l’ideologia “sociale” per garantire quel minimo di inclusione necessario per far sopravvivere il potere costituito. Il pensiero cristiano-sociale, la seconda Internazionale (col suo riformismo gradualista), Bismarck, Giolitti, il primo Roosevelt. Poi, dopo la grande crisi, Lord Keynes ristruttura l’economia politica e il secondo Roosevelt la politica economica. Quest’assetto fondato su uno Stato sovrano, forte e mediatore fra capitale e lavoro, dura fino a metà anni settanta. Gli anticorpi covano sotto le ceneri. Dal secondo dopoguerra la Mont Pelerin Society affina la reazione: Hayek, Von Mises, Milton Friedman. L’idea forte è la privatizzazione: Thatcher e Reagan: “Government is not part of the solution, is part of the problem!” e “There is no alternative”. Lo stato sociale si abbatte con più facilità del previsto. Il concetto di privatizzazione ha distrutto Keynes e cambiato il mondo.

Al tramonto del modello keynesiano, nella seconda parte degli anni sessanta, nasce il pensiero ecologista profondo. Raquel Carson lancia l’allarme. Fritz Schumacher lo traduce in ricette economiche dotate del prestigio di esser sostenute da un allievo prediletto di Lord Keynes. Nasce il concetto economico di “sostenibilità”, splendido nella sua semplicità. Un sistema economico è sostenibile se non consuma più risorse di quante ne possa rigenerare. Il pianeta non va consegnato alle generazioni future in condizioni peggiori di quelle in cui ci è stato consegnato dalle generazioni passate. L’idea fonda un approccio intellettuale volto ad allontanare l’economia dai paradigmi meccanicistici del positivismo scientifico. Si cerca la sufficienza, non la crescita. La sostenibilità si articola in un contesto di “conversione” ecologica dell’economia. Alex Langer enfatizza la natura non solo materiale e politica ma allo stesso tempo spirituale e personale di questo processo. La rottura con l’ortodossia economica, con lo stesso senso comune fondante la modernità non potrebbe essere più radicale. Schumacher resterà sempre un pensatore eterodosso, fortemente critico della concezione dominante dello “sviluppo” su cui si fondano le ricette imperialiste, promosse in tutto il mondo come “globalizzazione dei mercati” dopo la decolonizzazione. Il suo libro, Small is beautiful è tornato a essere un “cult” nella c.d. attuale economia della transizione, ma la locuzione “sostenibilità”, dopo una prima fase radicalmente sovversiva, è progressivamente normalizzata dai dispositivi ideologici del capitalismo. La locuzione “sviluppo sostenibile”, un vero ossimoro, diventa nozione dominante nei programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. Un’idea fondamentalmente truffaldina di “green economy” capace di garantire sviluppo sostenibile serve da foglia di fico di uno sfruttamento dell’uomo e della natura sempre più intenso e scientifico nell’attuale strutturazione del capitalismo cognitivo. La terra fertile è coperta da pannelli solari. La monocultura della soia e del mais produce biodiesel per far funzionare i nostri SUV. La green economy abbatte le barriere fra il mercato dei carburanti e quello del cibo. Barack Obama è l’alfiere di questo capolavoro di ipocrisia.

La crisi del 2008 ha portato all’emersione di una nuova parola, potenzialmente sovversiva del nostro modo di pensare all’economia, che oggi costituisce l’oggetto del contendere fra due visioni del mondo. Da un lato i beni comuni si propongono come rivoluzione generativa. Dall’altro essi, a seguito del loro emergere autenticamente politico, sono oggetto di un vero tentativo di detournement reazionario, per utilizzare, a contrario, la terminologia debordiana. L’operazione, come tutti gli scontri capaci di produrre ideologia e falsa coscienza, è complessa. Nella sua versione provinciale di una semiperiferia come quella italiana essa da un lato presenta tratti particolarmente volgari, ma dall’altra si manifesta in modo più semplice e diretto facilitando l’analisi. Procediamo per semplici cenni.

Sul piano delle idee la locuzione commons viene recuperata al dibattito da Garrett Hardin, un biologo-economista che dedica un celeberrimo articolo alla “tragedia dei comuni”. Il lavoro costituisce una specie di teoria evoluzionistica della proprietà privata, in cui quest’ultima istituzione viene rafforzata nel quadro della più stretta applicazione del modello fondato sull’homo oeconomicus. A partire dai tardi anni ottanta, Elinor Ostrom, una politologa-economista vicina alla scuola del c.d. “neo-istituzionalismo” (Douglass North), organizza una serie di studi per dimostrare che i commons non sono luoghi di “non diritto”, come sosteneva Hardin, ma che al contrario essi hanno sostenuto per secoli istituzioni sociali in equilibrio senza che si verificassero tragedie di sorta. Nel 2009 Ostrom riceve il Nobel per l’economia. L’economia mainstream, scottata dalla crisi economica, in risposta ai critici della globalizzazione (Seattle 1999) che da sempre celebra, cerca di rifarsi una verginità. Vengono premiati lavori c.d. eterodossi che cercano di inserire un minimo di realismo nell’astratto mondo dei modelli teorici. Vengono premiati fra gli altri: North, Stiglitz, Kahneman, Krugman. Nella prima parte del nuovo millennio, la nozione di “beni comuni”, ancora teorizzata in modo primitivo, comincia a dare un comune senso alle diverse lotte che, a partire dall’insorgenza del Chapas nel 1994 e passando per la celebre guerra dell’acqua a Cochabamba (2000), guidano la resistenza dei popoli contro la violenza dell’economia globalizzata. Paradossalmente queste resistenze, a loro volta globalizzate in sforzi organizzativi più o meno riusciti dei forum sociali mondiali, mostrano che la critica di Ostrom a Hardin, ancorché decisiva nell’analisi delle motivazioni dell’individuo in carne ed ossa, assai più sovente homo civicus che homo oeconomicus, non coglie politicamente nel segno. Infatti l’homo oeconomicus, istituzionalizzato e potentissimo, esiste eccome, sotto forma di persona giuridica. Egli opera a livello globale in un mondo di “non diritto”, proprio come diceva Hardin, o meglio in un mondo in cui il diritto, limitato dai confini delle giurisdizioni, non riesce a limitarlo. La corporation, homo oeconomicus artificiale più potente e agile degli Stati, riesce ad abbattere il diritto statale che potenzialmente potrebbe limitarne l’agire. Le corporation determinano così una giuridicità globale funzionale alle proprie esigenze di predazione che rende impossibile l’esercizio della sovranità economica statuale, quand’anche questa volesse essere esercitata. Il nuovo homo oeconomicus artificiale capace di agire in uno spazio di non diritto da sé medesimo prodotto, determina il prodursi a livello globale proprio quella tragedia dei comuni di cui parlava Hardin. Per uno di quei fenomeni di eterogenesi dei fini purtroppo sempre in agguato, la critica di Ostrom a Hardin contribuisce al negazionismo dominante intorno all’attuale drammatica situazione, in cui il mondo intero è il bene comune devastato fino alla tragedia dalla logica individualistica e di breve periodo della corporation. Proprio come diceva Hardin nel suo pur sgradevolissimo studio!

Il discorso dell’economia politica dominante, in quanto scienza produttrice di egemonia, non può che essere negazionista circa la reale natura del capitalismo e dei suoi effetti sul mondo. Ecco spiegarsi il massimo riconoscimento a Ostrom, autrice di un contributo teorico di grande spessore che tuttavia, nel suo impatto politico, non contribuisce a fare chiarezza sull’attuale stato del mondo. In effetti è in corso una tragedia del comune a livello globale che può essere fermata soltanto attraverso una pratica di produzione di giuridicità sufficientemente forte per un’opera di rieducazione di quelle soggettività artificiali che, preoccupandosi unicamente di massimizzare i profitti azionari e manageriali, commettono veri e propri crimini contro l’umanità e la natura.

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