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Pinocchio e l’economia

Num°07 ECONOMY
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Cosa vede, cosa può ancora estrarre, lo sguardo filosofico sull’economia e su ciò che è economico? Il lavoro tipico della filosofia, che fa notare ciò che è prossimo ma si sfoca proprio a causa della sua prossimità, si applica bene all’economico. Anzitutto perché l’economico ci è divenuto prossimo in modo soffocante, pretendendo un’attenzione esclusiva e al tempo stesso impotente, ma anche per una ragione meno attuale, più legata a un significato di “economico” molto elementare e proprio perciò potenzialmente condivisibile come base di partenza per un ragionamento.

Appena un passo aldilà del tautologico potremmo affermare che il tratto dell’economico, ciò per cui qualcosa viene detto economico, è che le parti siano vicine e concentrate, senza sprechi, che tutto dunque sia in un certo senso prossimo, ottimizzato. Una distanza senza motivo, una distanza che non sia di sicurezza non è economica, ma è uno spreco. In questo senso il non economico, il nemico dell’economico è proprio lo spreco. Connotato dell’economico inteso sistemicamente è la replica e la tutela della distinzione redditività/non redditività. Asciutta, rigorosa, seria, efficiente ed efficace, la sfera economica è tenuta, per il posto che le compete nel pensiero e nelle pratiche, a fare a meno. Fare a meno, perché se non fa o fa a più, non è più economica.

Questa implacabile, severa strategia, nel processo di differenziazione sistemica, ha avuto un grande successo evolutivo, diventando influente a tutti i livelli, persino sinonimo di eleganza nella sua pura forma. E tuttavia non possiamo ignorare che il dilagare di un codice binario, proprio di un determinato sottosistema sociale, fuori dai propri confini non è un fenomeno salutare ma regressivo. Non disporre delle distinzioni tipiche di ciascun sistema che storicamente si è differenziato, ma assistere alla colonizzazione di una distinzione, in questo caso parliamo di quella redditività/non redditività, fuori dal proprio campo, equivale a correre il rischio dell’indistinzione, dell’arbitrarietà, del crollo della fiducia, dell’arretramento a stadi di evoluzione più antichi, superati dal livello di complessità che si tratta di gestire. Se il criterio economico tacita tutti gli altri, per di più con l’autorità e il fatalismo che gli provengono dalla sua maggiore scientificità, se non si dispone di uno sguardo altro rispetto a quello economico, in qualunque contesto, resta fuori tutto ciò che lo schema economico non è in grado di catturare, di trasformare in fenomeno, di lasciar accadere. E, conseguenza ancora più nefasta, anche l’economia sembra non essere più tenuta al vincolo dell’austerità e della solidità, al vincolo del fare a meno, che sono i valori in cui si traduce la distinzione concettuale tipica di questa sfera, fra spreco e non spreco. Economico diventa allora insieme un aggettivo spauracchio e un aggettivo mantra, quasi fosse l’unico modo per fare e per stare ai fatti, l’unico modo per essere pragmatici e quindi realisti, e come se “fare”, nel modo realistico e pragmatico così concettualizzato, fosse l’unico modo per essere al mondo sensatamente.

Si verifica quella che, con espressione carica di riferimenti soprattutto per il nostro Paese, Barbara Spinelli ha definito “emergenza unanimistica”, per cui la serietà del momento è definita dalla spietatezza delle condizioni delle economie “avanzate”, essere seri vorrebbe dire stare a quanto detta la situazione economica, e credere davvero che una situazione economica possa “dettare” le azioni e le decisioni coerenti con se stessa, come una premessa vera di un perfetto sistema deduttivo. Ma paradossalmente proprio l’onnipresenza dell’economia la rende inutilizzabile per ciò che ha di proprio, la perdita della specificità funzionale rende incomprensibile il motivo per cui si dovrebbe stare alle regole di quella funzione, con le conseguenze potenzialmente eversive che questo comporta.

Questo fenomeno va preso dunque sul serio su entrambi i fronti, perché su entrambi produce perdite, effetti di esclusione e quindi regresso. In questo senso lo sguardo filosofico diventa necessario, non per inventare soluzioni geniali e generali, formule magiche o slogan da mettere al servizio di chi agisce. È più radicalmente necessario che si vigili sulle distinzioni concettuali, che si militi a tutela delle differenze, delle autonomie, della comparabilità dei comparabili, nonché in difesa della pratica della giustificazione. Se cadono i vincoli e le distinzioni concettuali subentra una confusione non solo logica ma anche deontologica, per cui le diverse sfere d’azione non sono tenute a nulla di preciso.

Per poter utilizzare l’aggettivo “economico” occorre che il suo senso rimanga distinto da diseconomico e anche da ciò che semplicemente non è economico, non c’entra con l’economico. È inoltre necessario che si sia tenuti a giustificarne l’impiego, che si sappia dire perché una certa transazione è qualificabile come economica, entro quale soglia è sensato definirla tale, e oltre quale altra non lo è più.

Ma una volta stabilito che una certa transazione può essere definita economica, questo deve poter significare qualcosa su cui poggiano le aspettative dei partecipanti alla transazione. Un esito economicamente sostenibile rappresenta l’aspettativa sensata di chi partecipi a uno scambio di tipo economico, e la sostenibilità consiste nel fatto che non ci può essere soddisfazione dell’aspettativa per una sola parte. È perciò inaccettabile e pericoloso che l’economia come tecnica che presiede alla valutazione della sostenibilità non faccia il suo lavoro, non spunti la lista della spesa, non confronti costi e benefici, non abbia l’onere di fornire numeri precisi e previsioni attendibili, ma si blindi nella sua autosufficienza e nella complessità dei suoi procedimenti, accettando per sé margini di imprecisione e di errore elevatissimi.

È inoltre importante filosoficamente che quando si parla di economia in generale si prenda posizione rispetto a come vanno intese le descrizioni e le spiegazioni che si forniscono. In alcuni casi si ipostatizza l’economia, per esempio, la si tratta cioè come una res, capace di essere causa, suscettibile di imputazioni precise, il che può essere accettato a condizione che si dichiari e che se ne forniscano ragioni. In altri si tratta l’economia come un sistema (entità che si comporta diversamente dalle res, in quanto più sistemi insistono sulle stesse res) differenziatosi per svolgere una funzione più specializzata rispetto alla fase precedente, in altri ancora come un idealtipo, che serve per identificare tratti economici della realtà ma che non è possibile incontrare come tale, in purezza.

In quest’ultimo senso intendo qui la semplificazione proposta, per cui economico è opposto a diseconomico in quanto strategia di evitamento dello spreco. Ma se spreco è categoria dell’economico, non per questo può applicarsi senza premesse a una realtà concreta, che in quanto tale non è mai solo economica. Fare economie in senso generale è un comportamento economicamente virtuoso, in tutti i casi in cui sono in gioco risorse e aspettative economiche, ma non appena si provi a determinare precisamente il punto da cui inizia lo spreco occorre entrare nel merito di altri parametri in gioco. È vero dunque che in un’ottica economica fare economie è tautologicamente necessario, non è vero che affermandolo si disponga già di un contenuto, foriero di soluzioni concrete che portino a impiegare le risorse in un modo o in un altro, e neppure è vero che le risorse su cui poter contare in ogni momento e in ogni contesto sono un vincolo dato a monte e insuperabile.

Quella economica, così intesa, è un’autorità formale, insindacabile, imprescindibile ma né necessitante sul piano dei fatti né tenuta a determinarsi in precetti puntuali, prescrivendo contenuti all’azione. Uno spreco non può essere identificato come tale da tratti inequivocabili e intrinseci, non ci sono cose che in se stesse siano sprechi, perché per dirle tali occorre commisurare il dispendio che richiede il produrle o il mantenerle o il curarle a un contesto di esigenze, desideri, scopi, intenzioni che possono essere addirittura indifferenti alla ratio economica. Ci saranno quindi situazioni in cui fra gli scopi si incontrano scopi economici, ma anche situazioni in cui gli scopi sono di tutt’altra natura e solo i mezzi possiedono il tratto economico. Se per fare qualcosa occorre spendere del denaro questo fa sì che occorra considerare l’aspetto economico, vagliare la sostenibilità, procurare le risorse, ma quell’ottica non domina l’intera questione che concerne il fare o il non fare, o il fare diversamente. La grandissima rilevanza di un mezzo (o modo, o forma) non è sufficiente a trasformarlo in fine né in unico criterio valutativo, né in unico e sicuro indice di riuscita.

Pinocchio e l’economia

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