
REALISMO SENZA REALTÀ?
EDITORIALE
Il dibattito filosofico e politico degli ultimi mesi è caratterizzato da un’esorbitante frequenza della parola “realismo”. Il suffisso “ismo”, come al solito, serve a indicare «“dottrine o atteggiamenti” (realismo, eroismo, attendismo) oppure “qualità o affezioni fisiche o morali” (alcolismo, strabismo, egoismo)». Si tratta infatti di un dibattitto circa l’atteggiamento da tenere nei confronti della realtà. Innanzitutto, essa va presa sul serio, è un dato inaggirabile con cui fare i conti. Amanda Berry, la ragazza di Cleveland, è stata realmente rapita e tenuta sotto sequestro con le sue compagne per 10 anni, purtroppo non è un racconto di fantasia.
Con ciò non si è però ancora detto nulla, o perlomeno nulla di esplicito, su che cos’è la realtà. La notizia di Amanda è immediatamente comprensibile a tutti come terribile, perché tutti (o quasi) condividiamo un’interpretazione dell’essere umano come persona nata libera e degna di essere onorata e rispettata, e non trattata come mezzo. Se così non fosse, non vi sarebbe qualcosa come il “rapimento”. Nessuno si sognerebbe di dire che è stata rapita una pietra, e questo perché facciamo una distinzione ontologica tra una donna e una pietra (una distinzione ontologica: non si tratta di una costruzione culturale).
Il realismo implica dunque sempre un’interpretazione. Per prendere sul serio qualcosa, per riprendere la distinzione aristotelica, devo sapere non solo che le cose stanno così, ma che cosa sono le cose che stanno così. La differenza ontologica heideggeriana è stata forse troppo frettolosamente interpretata come una divaricazione tra i nudi fatti (gli enti) e la luce in cui si guardano i fatti (le interpretazioni storiche). Da una parte i vestimenti (l’essere), dall’altro la nuda realtà. Una tale ontologia fattualistica ha già però pre-deciso, senza tematizzazione, che non esiste una luce delle cose (o nelle cose): che i vestiti sono una mera esteriorità, che si può deporre o mutare in qualunque momento. Il “supplemento” è apparso dunque essere non già, come forse era nelle intenzioni di Derrida, una modalizzazione della stessa realtà (est modus in rebus, non soltanto nel senso aristotelico della moderazione), un genoma grammatologico al cuore dell’essere in quanto tale, ma è stato derubricato a caratteristica di una regione dell’ente, quella dipendente dalle intenzioni dell’uomo.
Come atteggiamento, il realismo richiama l’importanza di una soggettività pura e attenta alla datità delle cose. Il realismo è dunque un soggettivismo, il cui scopo è di fare emergere l’essenza delle cose. Tale essenza si dà però solo in un’interpretazione, la quale – lungi dal fare violenza ai fatti – si prende la responsabilità di dare un nome alle cose per quello che sono, assumendosi il rischio di dare un nome sbagliato, che non corrisponda cioè all’essenza della realtà.
Questo rischio, che è sempre posto di fronte all’alternativa del fallimento, si chiama “filosofia”. È certamente un dato di fatto inaggirabile che vi siano bambini soldato. Ma un realismo superiore non può limitarsi a dire questo, senza aggiungere che non devono esservi bambini soldato, cioè che la natura dell’essere umano è tale da escludere la bambinosoldatità, o da identificarla immediatamente come una depravazione.
Dire che il realismo ha bisogno dell’interpretazione, significa dire che lo sguardo con cui guardiamo le cose può essere giusto o sbagliato, o che le cose richiedono di essere guardate in un certo modo. Non sembra possibile descrivere la realtà, senza il suo modo. Un realismo che prescinda dal modo intrinseco o è solamente propedeutico alla filosofia (posto che una propedeutica filosofica possa esistere, cosa di cui molti importanti filosofi dubiterebbero), oppure è una cattiva filosofia.
Questo numero non si occupa pertanto di “realismo”, ma di realtà. Il dibattito su nuovo e vecchio realismo è qui anzi inteso come una semplice occasione, per tornare a porre la più classica domanda della filosofia: che cos’è la realtà? che cos’è l’essere?
Il realismo, in un senso molto ampio, è l’atteggiamento di chi non è disposto a tradire la realtà, o a voltare le spalle all’essere. Ma per non tradire qualcosa, è importante sapere, o provare a dire, che cos’è quello che non si tradisce.
In questo senso, non esiste filosofia che non sia realista, e la filosofia si può descrivere come un conflitto intorno al nome più adeguato da assegnare alla realtà.
Nella temperie genericamente aristotelica della fine del secolo scorso e – per inerzia – del primo decennio di questo millennio, la domanda sulla realtà sembra assumere per lo più un andamento catalogico. Della realtà non si può parlare, se non distinguendo ambiti, livelli e sistemi di realtà. Il rischio di salti di carreggiata grammaticali, di attribuzione a un livello di caratteristiche dell’altro livello, sconsiglia i prudenti dall’arrischiare una denominazione complessiva dell’oggetto “realtà”.
In alternativa, la nuova e vecchia metafisica riduzionistica s’imbarca nell’avventura di un parmenidismo scientista, in cui il livello fisicalistico è l’unico a esistere veramente, mentre gli altri, che se ne distinguono, sono in fondo solo apparenze.
Più attenta alla datità delle cose, la fenomenologia lavora all’opera meritoria di una descrizione del mondo, che ne dispieghi la ricchezza inesauribile. La stessa povertà viene a far parte di questa ricchezza, mentre la fenomenologia sembra avere il proprio punto di debolezza proprio in questa tendenza lussuosa, che trasforma in oro tutto ciò che tocca, senza peraltro avere mai davvero deciso che “oro” sia il nome adatto per la realtà, il nome ultimo della realtà.
Meno o punto diffusa è oggi l’attività – propriamente speculativa – di dare un nome alle cose. La crisi della filosofia è anche o soprattutto crisi della fiducia nella sensatezza stessa di questa attività adamitica della nominazione. Come se, per essere inventati, come appunto “essere” o “causa sui”, i nomi filosofici della realtà fossero per ciò stessi squalificati come ir-realisti.
La grande tradizione filosofica sembra invece caratterizzata dall’idea che solo un nome inventato (l’“essere”: n’existe pas) possa esprimere l’“essenza” (se ce n’è) della “realtà” (che ovviamente nessuno ha mai visto). Come e perché l’invenzione, il concetto, e perfino l’interpretazione, siano indispensabili alla realtà, è dunque una questione, che non uscirà dal dibattito troppo presto.
Ci sembra opportuno tornare a chiedere che cosa sia “realtà”, se la diversità delle parole per esprimerla (Wirklichkeit, Realität…) dica qualcosa di essenziale su di essa, e – in ultima istanza – a che cosa siamo fedeli, quando siamo fedeli alla realtà. Il conflitto sulla realtà sembra infatti un conflitto sulla fedeltà e sul tradimento. Come tutti i conflitti siffatti, è un conflitto violento, nel senso di irriducibile e ultimo. Il che si attaglia bene allo spirito serio del tempo.
Enrico Guglielminetti
Numero 08 – Realtà