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Ciò che vi potrebbe essere

Num°08 REALITY
Hilary_Putnam

1. Ontologia

Parlare di realtà equivale a parlare di ciò che c’è: quel “tutto” a cui notoriamente e ironicamente intende riferirsi Willard Van Orman Quine nel rispondere alla domanda ontologica fondamentale: “Che cosa c’è?”. La presupposizione implicita nel parlare di questo tutto è che si tratta di ciò che è oggettivamente fuori di noi (dalla nostra mente), ossia ciò che esiste in maniera distinta dal soggetto conoscente che pone la domanda. È nei confronti di questa realtà che, in generale, le nostre asserzioni sono responsabili, ricavando o meno una propria validità oggettiva a seconda che esse siano o meno a quella realtà fedeli.

Non occorre quasi aggiungere che, trattandosi di una realtà oggettiva e non costruita dal soggetto conoscente (a parte i casi di ovvia costruzione come gli artefatti sociali), a quest’ultimo non rimane che fornire risposte ipotetiche alla domanda ontologica fondamentale, risposte che evidenziano un intreccio inscindibile di ontologia ed epistemologia, e che indicano perciò cosa – stando ai migliori argomenti che ci è dato elaborare, gli argomenti permessi dal grado di sviluppo raggiunto dalla nostra conoscenza generale – vi potrebbe essere.

Ad ogni modo, spetta al filosofo formulare risposte – sempre ipotetiche – alla domanda “Cosa c’è nella realtà?”. Diverse sono le discipline che si occupano di realtà e che sono dunque in grado di offrire risposte del genere, ma queste saranno inevitabilmente legate ai presupposti teorici su cui una certa disciplina si fonda, e non potranno che apparire parziali. Sebbene scienze naturali, psicologia, senso comune, etica, religione e così via rappresentino in linea di principio delle fonti autorevoli da cui ricavare un’immagine della realtà, è al filosofo che la tradizione attribuisce gli strumenti concettuali per «comprendere come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stiano insieme, nel senso più ampio possibile del termine», combinando gli approcci delle discipline che si occupano di realtà, e stabilendo se una o più discipline sono da considerare privilegiate oppure no – stabilendo in altre parole se occorre adottare un atteggiamento riduzionistico, e in quale grado, oppure no.

L’individuazione di una disciplina epistemologicamente privilegiata distingue dunque le posizioni riduzioniste da quelle non riduzioniste. Un esempio delle prime molto diffuso nella storia della filosofia occidentale è dato dal materialismo, secondo il quale la realtà – tutta la realtà – è materia fisico-naturale, e quanto rimane o è riducibile (almeno in linea di principio) alla realtà materiale, oppure non è che mera apparenza. Come hanno insegnato i neopositivisti, una delle vie più promettenti per eseguire la desiderata riduzione è quella linguistica: sicché, una volta chiarito come è fatto il linguaggio della disciplina privilegiata, la riduzione dell’intera realtà alla realtà studiata da quest’ultima si può ottenere traducendo in questo linguaggio i linguaggi delle rimanenti discipline. Esempi invece di posizioni non riduzioniste sono forniti da tutte quelle posizioni che ammettono una pluralità di livelli del reale – ciascuno descrivibile sulla base di un linguaggio autosufficiente.

Personalmente non scorgo motivazioni plausibili a favore di atteggiamenti riduzionisti. La realtà appare infatti indubbiamente complessa e ricca, e ritengo che tale ricchezza fenomenologica vada il più possibile salvaguardata (a meno di plausibili argomentazioni contrarie); inoltre, tra i tentativi più ingegnosi di produrre una riduzione della realtà a un piano considerato filosoficamente più adeguato vi è quello appena richiamato dei neopositivisti, un tentativo rivelatosi fallimentare. Di conseguenza in quel che segue cercherò di esplorare come appare la realtà quando la si guardi con occhi autenticamente pluralisti.

Ciò che vi potrebbe essere

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