
Zygmunt Bauman ha caratterizzato il nostro stato esistenziale come “liquido” perché liquido è lo scenario ontologico dentro cui le nostre vite cercano invano di stabilizzarsi. Scrive, infatti, Bauman: «Una società può essere definita “liquido-moderna” se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido-moderna non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo». Da ciò consegue che la vita resta in qualche modo sempre informe, perché ogni forma che tenderebbe a conseguire verrebbe spazzata via dal mutamento del contesto sociale dentro cui è destinata a realizzarsi. Abitudini e procedure di vita diventano impossibili. Ogni prassi si interrompe perché le regole che consentono il consolidamento e il radicarsi temporale delle abitudini e delle procedure, ad esempio in consuete prassi di comportamento – e dunque in modalità di azione –, si modificano troppo velocemente. Vengono sostituite da nuove regole che dettano la necessità di approntare diverse maniere d’essere, di atteggiarsi e di acconciarsi secondo il nuovo contesto, la nuova realtà riconfiguratasi.
Ciò che da sempre la filosofia ha considerato come la matrice essenziale della realtà, ossia la sua ricettività ad accogliere il movimento, diventa nelle parole di Bauman l’indice di una degenerazione ontologica, di una perdita che consegna la realtà all’effimero, al senso più drammatico della caducità e dell’essere perituro. Di ciò che scorre via non resta nulla, neppure una traccia, un’ombra, una parvenza, una memoria. Alla stregua di un bene di consumo, ridotto a scarto, subisce un annullamento, una privazione d’essere radicale che lo trasforma appunto in nulla.
Bisogna sempre ricominciare da zero, reinventarsi lo stato di cose per scoprire che esso è già “scaduto” e va ridefinito, rimodulato, riprogrammato, riformato e riplasmato. La “liquidità” è, dunque, la condizione ontologica che attiene a una realtà che oggi sembra non conoscere né staticità né univocità. Prendendo in prestito le parole di Heidegger lettore della metafisica greca, si potrebbe dire che non c’è nessuna “presenza stabile” in questa realtà, perché ogni presenziarsi è già subito un diventare assente. Non c’è nessuna οὐσία, nessuna costante presenza, nessuna Anwesenheit, nessun permanere. Stabile è solo il continuo transitare di cui resta solo questo transitare. A permanere è solo il mutare che si svuota di ogni contenuto ontologico determinato. Resta, cioè, solo il movimento, scisso e slegato da ciò che in esso si muove e transita per scomparire. Ma così, in fondo, non resta neppure il tempo. Il tempo, infatti, assume “corpo”, “consistenza”, nella misura in cui ci sono corpi, realtà solide che, pur mutando in qualcosa che è loro proprio, comunque permangono. Se non c’è una solidità rispetto a cui battere il ritmo del tempo, allora non c’è neanche tempo, ossia non c’è più tempo per restare, per provare ad abitare un’identità; non c’è più un soggetto, con le sue pretese, legittime o no che siano, violente o meno. E se in una relazione viene meno uno dei due poli, la relazione stessa si disintegra. Dunque, non c’è soggetto, ma non c’è neppure oggetto, non c’è nulla che sia altro, non c’è nient’altro. Del resto, possiamo dire che comunque sia resta una realtà – fosse anche quella del vuoto transitare – se tutto, e con esso anche lo stesso transitare che ogni volta assume nuova forma perché si dà come transitare di qualcosa, scompare nell’accelerazione di un processo di dissolvimento cui la φύσις, come ci insegnano già gli Antichi, è per struttura disposta?
Stratificazione ontologica e fluidità del reale