
IL PARTITO CHE NON C’È
EDITORIALE
1. Schuld sind immer die Anderen
In Germania, in questi giorni, c’è un manifesto elettorale dei Verdi. Frau Merkel punta il dito come una maestrina sulla testa di Philipp Rösler, Presidente della FDP, vice cancelliere e ministro per l’economia. La scritta in alto a sinistra recita: «Schuld sind immer die Anderen» (la colpa è sempre degli altri). A destra in basso, in bianco su sfondo verde, lo slogan dei Verdi per le elezioni politiche del 2013: «Und Du?» (e tu?).
La comprensione è contestuale. Se non si legge immediatamente la scritta Gruene.de in basso a sinistra, si ignora lo slogan dei Verdi o non si associa immediatamente il colore al partito, c’è il rischio di capire che si tratti di un manifesto della CDU. Un giovane uomo dai tratti orientali e dal viso sorridente, vagamente alternativo, dà sempre la colpa agli altri. La maestra punta il dito e gli chiede: “E tu?”
Il campo interpretativo è ambiguo e indeterminato, e solo il vettore della decisione politica (che richiede la conoscenza) gli dà un senso univoco. Tolta la freccia, che indica la direzione, siamo alle prese con un bastone, che si può impugnare da entrambi le parti, che si può interpretare cioè a diritto o a rovescio: puro romanticismo politico, direbbe Carl Schmitt.
Il problema sembra dunque essere quello del rapporto tra lo sfondo di indeterminatezza e il vettore di significato. Un sospetto generalizzato suggerisce che il secondo sia pura propaganda; è il primo – la confusione – a essere la verità.
2. Bicameralismo perfetto
Sebbene la funzione del “politico” sia spesso individuata nella de-cisione, e il blocco, la paralisi, il rinvio delle decisioni siano considerati piuttosto come il suo malfunzionamento (di cui il precipitato istituzionale sarebbe, in Italia, il vituperato bicameralismo perfetto), è invece innegabile che il romanticismo politico – per così definire il fattore dell’indecisione, dell’essere sempre pronti a tornare sui propri passi, a dire e a fare tutto e il contrario di tutto – sia parte strutturale dell’agire politico. Il lato sgradevole di ciò è l’ambiguità, l’insincerità, l’ipocrisia radicali che ci si aspetta dai politici. Un empito decisionista ama, per contro, i politici che parlano chiaro. Ma proprio quest’empito, che passa talora sotto la sigla di anti-politica, finisce col proiettare nel firmamento del successo politico politici puri, irrimediabilmente affetti da un “due”. Dove poi si può domandare se la capacità di piegarsi e prendere il vento da tutte le parti sia al servizio di una chiarezza di rotta fondamentale, o se l’unica rotta sia la presa e la conservazione del potere, come vera essenza del politico, e qualsiasi contenuto – destra e sinistra, giustizia o privilegio, guerra o pace – faccia parte, in fondo, solo del vento. Il politico non avrebbe, in questo senso, nessuna idea. E quanto meno un politico avesse un’idea, tanto più sarebbe amato. In fondo, almeno in Italia, a destra e a sinistra, i politici più popolari sono proprio quelli che hanno tutte le idee (una, nessuna e centomila). Chiamiamoli i “cinesi” della politica.
3. La doppiezza di Togliatti
La questione sembra dunque essere il rapporto tra ambiguità e decisione in politica. La politica si potrebbe forse definire come una certa forma del concatenamento di indecisione e decisione. In un celebre libro di vent’anni fa, Pietro Di Loreto metteva a fuoco la “doppiezza” di Togliatti. Il mito comunista ha funzionato a lungo sulla base di questo dispositivo di dire una cosa (promettere la rivoluzione) e di farne un’altra (lavorare alla creazione e al consolidamento della democrazia borghese del welfare), e forse non c’è mito che non utilizzi le risorse di un analogo concatenamento. Se, per certi versi, l’esperienza democratico-cristiana è meno segnata da ambiguità programmatica (e più da ipocrisie personali e curiali), è forse perché il cristianesimo stesso è già in se stesso un combinato disposto di attesa apocalittica e di accomodamento liberale; di marginalizzazione del mondo (politica compresa) e di apprezzamento e autonomizzazione del mondo (politica compresa).
4. Che cosa fa un partito
Se dunque la politica non è solo uscita dall’indecisione, ma un’uscita che in qualche modo vi resta, dunque in questo senso un mito, e se questo non è segno di un malfunzionamento, ma attiene invece alla fisiologia, e solo per questo poi anche alla patologia, ci si può chiedere a che cosa serva un partito.
Che cosa fa un partito politico? Che tipo di organismo è? L’idea, classica, che il partito sia la parte dell’anima, che cioè immetta da fuori nel corpo sociale, di per se stesso amorfo, la forma, come un giudizio determinante kantiano, sembra divenuta inattuale: il potere che dà la forma ha le armi spuntate, e l’amorfo (per esempio, sotto forma di società anonime di capitale) sembra prevalere. Nel migliore dei casi, i partiti contemporanei sembrano poter esercitare un giudizio riflettente kantiano, che recepisca e interpreti le istanze provenienti dalla società.
O forse, quell’idea era fin dall’inizio manchevole di un’aggiunta. La forma politica, che il partito immette da fuori, è solo la tesi. L’idea di società, dunque la decisione politica, senza di cui un partito diventa un non-luogo, non è mai sola. Essa concorre appunto con altre a plasmare il corpo sociale, la cui forma sintetica origina quindi da una mediazione.
La prima parola di un partito degno di questo nome è dunque sempre priva di ambiguità: nel caso di Togliatti, la decisione per il comunismo. Un partito è allora una macchina produttrice di duplicità: l’ambiguità è (dev’essere) l’output, non la premessa, del sistema-partito. La decisione (la forma determinante, che cade da fuori) è la tesi; l’esperienza non ottunde, ma allarga la punta acuminata della decisione. È l’esperienza di senso della guerra di liberazione nazionale, con tutto ciò che comporta (conflitto e collaborazione con le altre forze politiche antifasciste, esaltazione della libertà, esecrazione della dittatura…) la realtà che determina la torsione della forma in entrata (l’idea del comunismo) in una forma* in uscita (il patriottismo costituzionale).
I partiti politici sono quindi macchine per tradire se stesse. Cosa che non può riuscire se, come i principali partiti odierni, non hanno un’identità. È difficile infatti tradire quello che non esiste. Al posto di questa positiva produzione di ambiguità, assistiamo oggi a partiti non-luoghi, ambigui e informi fin dall’inizio, che, scontrandosi con la realtà (intesa qui non come esperienza di senso, ma come limite e frustrazione delle proprie ambizioni o velleità), producono reattivamente un output decisionista. Anziché dare forma all’informe, i partiti rischiano dunque di diventare la forma (la maschera) assunta dall’informe.
Solo chi è deciso fin dall’inizio, sa rivedere le proprie decisioni. Chi non ha idea, chi non è né carne né pesce, rischia di finire in una forma priva di aggiunta, usata come una clava per ammazzare la realtà: tecnica della decisione, decisione come Ge-Stell, imposizione di forma a una realtà che non la sopporta.
Come produrre doppiezza: è forse questo il compito impossibile per partiti ondivaghi fin dall’inizio, che hanno bisogno di ascoltare la “gente” (si dice, si fa…) per sapere chi sono (primarie, sondaggi di opinione), e che – se mai lo sapessero – smetterebbero di ascoltare. Saperlo da sé, in rigoroso isolamento, è il compito di un partito; che, solo in quanto isolato, può poi davvero essere aperto.
Enrico Guglielminetti
Numero 09 – Partito