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Partiti e politica alla prova del populismo: qualche nota

Num°09 POLITICAL PARTIES
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La sintetica grammatica del populismo proposta da Aldo Bonomi, come «forma generale della politica, instabile quanto si vuole, in cui confluiscono istanze di chiusura così come richieste di società aperta, localismo e nuovo universalismo dei beni comuni, rapporto diretto con il leader e istanze partecipative radicali», offre un’istantanea del fenomeno, oggi in Italia, che fa capire intuitivamente come ad esso concorrano delusioni generate dalla politica lungo tutto l’arco delle sue espressioni classiche, da destra a sinistra.

È proprio questo che fa del “nuovo populismo” una forma “generale” della politica, e non un’espressione per quanto vasta di una sua specifica area di riferimento. Una forma generale, alle cui pulsioni – al di là dell’instabile e sempre più ampio amalgama di pubblica opinione che l’alimenta, di movimenti, e delle sue interpretazioni “libere” o in libera uscita dalle adesioni politiche tradizionali – non resta estranea quella che pure è il principale obiettivo polemico di questo nuovo populismo: la politica in quanto tale come ceto politico professionale, per l’ovvia sua tentazione di cavalcarne l’onda di piena cercando di sopravvivere a se stessa in assenza di risposte adeguate alla sua crisi.

L’afflittivo populismo di lotta e di governo che abbiamo a lungo subito in Italia nell’interpretazione di Berlusconi e della Lega, e che ha non poco contribuito alle sabbie mobili in cui si è trasformato il guado che la politica italiana doveva passare vent’anni fa, viene anche da qui. Oltre che, ovviamente, dalla più facile attitudine della destra a “leggere” con le sue categorie ideologiche, e a interpretare in prima istanza, l’“individualismo incoerente” – sempre pronto a tutelarsi corporativamente – che esita da dinamiche sociali, dove la dialettica tensiva tra individuo e comunità tende a scompensarsi nell’egoismo individuale e di gruppo. L’elogio della libertà di essere sé stessi, anche in spregio a qualsiasi vincolo comunitario, principio di legalità incluso, per affermare il proprio progetto di vita, è stato un asse comunicativo strategico, come ha notato Giuseppe De Rita, della destra italiana degli ultimi vent’anni.

Ma questa crisi della politica è troppo generale, per essere ascrivibile ad una mera mediocrità del ceto politico, a un semplice deficit di qualità di quei soggetti sociali collettivi che sono i partiti o le organizzazioni politiche tradizionali.

Il nuovo populismo si alimenta di una drammatica disintermediazione politica sempre più potentemente configurata nella crisi delle democrazie liberali del welfare in Occidente; e di una diffusa disintermediazione intellettuale, non solo in capo alla politica, come incapacità di trovare categorie adeguate a leggere e più ancora a rispondere alla crisi sociale in atto. Un combinato disposto che facilita l’affidarsi della pubblica opinione ad un emotivismo di massa (vi ha richiamato l’attenzione la Caritas in veritate), che, mentre esprime il disagio sociale, concorre ad ostruire percorsi ragionati e razionali di soluzione, capaci di ricucire la frattura tra politica e società.

Questa crisi da disintermediazione ha trovato più fortemente esposto il sistema dei partiti europei, letto in parallelo al sistema americano, per la maggiore latitudine dell’intermediazione politica tradizionalmente da esso svolta.

A questo proposito Mauro Calise ha in modo convincente richiamato in servizio la classica tipologia, esemplata sul sistema americano, di Theodore Lowi sulle “arene del potere” individuabili nella politica, ciascuna contraddistinta dalla prevalenza di un diverso attore politico, in uno schema in cui è la natura della policy arena a promuovere i diversi attori politici. Una tipologia quadripartita: a) l’arena distributiva, «imperniata sul patronage e la distribuzione di micro risorse»; b) l’arena costituente, «nella quale vengono stabilite le regole che presiedono all’organizzazione istituzionale di un regime politico»; c) l’arena redistributiva, «dove si registra lo scontro tra le parti sociali per la redistribuzione della ricchezza su ampia scala»; d) l’arena regolatoria, «dove sono in gioco i diritti fondamentali che riguardano la sicurezza, la proprietà, la libertà».

Assunto questo schema quadripartito, i partiti europei – storicamente «portatori di precise e ben visibili piattaforme che investivano gli aspetti più critici dell’organizzazione sociale», mediatori d’interessi, attori politici fondamentali, cioè, su tutte le quattro arene politiche – con la crisi strutturale del welfare subiscono un arretramento dalla loro capacità di presidiare tutte e quattro le arene del potere della tipologia di Lowi. Già per questo, a differenza dei partiti americani storicamente efficienti nelle prime due arene, e mai impegnati a fondo sulle ultime due, dove giocano altri attori politici, essi sono condannati ad essere molto più delusivi dei cugini americani, per le società di riferimento, nella generale crisi delle democrazie del welfare.

Non solo, ma nella convergenza funzionale d’intermediazione sociale agibile ai partiti tra le due sponde dell’Atlantico, i partiti europei appaiono non solo sempre meno attrezzati per fronteggiare le sfide di governo che agitano le arene più scottanti, ma anche nel loro «ritirarsi nel recinto del patronage statale nonché nel ruolo costituente – certo non marginale – di garanti del funzionamento infrastrutturale del sistema», cioè nel loro allinearsi ad una funzione “americana”, appaiono peculiarmente deficitari.

Esemplare il caso italiano, dove alla difficoltà ovvia, per le attese cui si viene meno, di uscire dalle arene politiche più scottanti – nei limiti in cui nelle società europee, con le loro tradizioni politiche, questo è possibile – per consegnarle in linea di principio ad un regolatore europeo che stenta ad avere fisionomia riconoscibile, e nei fatti piuttosto al disordine anonimo dei mercati, si aggiunge l’incapacità di conseguire un efficientamento compensativo nelle arene politiche, cui ragioni strutturali spingono a restringere la propria missione: in concreto un patronage politico locale soddisfacente in termini di costi/benefici per i cittadini e un ammodernamento istituzionale.

Ad aggravare il quadro, si aggiunge, in questa situazione, che è generale nelle società del welfare, il nevralgico snodo della selezione delle classi dirigenti, con la crisi rovinosa dei meccanismi di selezione del ceto politico legata al collasso dei partiti tradizionali e al corto circuito mediatico in cui si è avvitata la selezione di élites politiche, che registra un generale scadimento in tutte le democrazie occidentali.

Sul tema, qualche tempo fa, Galli della Loggia in questo senso ha argomentato il deterioramento qualitativo delle classi politiche dei paesi del welfare, acconciatisi per decenni a essere “democrazie della spesa”, selezionanti le classi politiche spesso al rovescio dei bisogni di ciclo economico interno e di prospettiva sul piano globale.

Al venir meno delle condizioni strutturali che hanno ciò reso possibile per decenni, hanno corrisposto le scadenti performances della selezione dei leaders affidata alla personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale in tutta l’area euro-americana. Non che la personalità in politica non conti, anzi ha sempre contato e giustamente, ma quando la sua valutazione è fatta in gran parte attraverso le apparizioni tv allora è ovvio che a contare siano specialmente l’aspetto, la simpatia, l’abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Non certo le caratteristiche più significative per la selezione di leaders capaci in un contesto di crisi epocale. Il ricorso ai “tecnici” viene anche da lì, oltre che dalla necessità di dare risposte alla crisi non allineate al ciclo elettorale e ai suggerimenti dei sondaggisti sul consenso al momento disponibile sul mercato.

I guasti, in Italia, della personalizzazione della leadership, e della sua selezione su questi scenari mediatici, sono sotto gli occhi di tutti. Né ha dato fin qui grandi prove il succedaneo partecipativo nazional-popolare delle “primarie”, piuttosto sintomo che terapia di una crisi di selezione; dove la ricerca di credibilità della politica, “mettendoci la faccia”, prova a proporre un’assunzione di responsabilità riconoscibile in vivo e non in video. Anche se poi la mediaticità videocratica delle facce viene continuamente invocata dai sacerdoti della “partecipazione vera”, sempre in cerca di falsi profeti, del carisma in videobox, impegnati a lisciare il pelo della crisi della democrazia rappresentativa anche quando le forme della democrazia diretta scivolano verso quelle, non istituzionalmente contenute e frenate, della democrazia plebiscitaria. Né, a dire il vero, la pseudo trasparenza e orizzontalità del web, dove si mette il tweet, cioè il passaggio dalla faccia che attira alla parola che mobilita, sembra a sua volta offrire grandi chances di migliorare la selezione delle élites politiche e dare un contributo al grande tema, nella crisi della democrazia rappresentativa, della “verifica” del “carisma” (competenza, autorevolezza, sincerità) in politica, di una verifica critica dei poteri; una funzione questa, di una verifica “riflessiva” del carisma dei “capi”, che è storicamente uno dei punti di forza della selezione democratica rappresentativa e delle organizzazioni “corporate” (istituzioni) del potere.

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Numero 09 POLITICAL PARTIES novembre, 2013 - Autore:  Condividi

 

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