
Stupisce ritrovare la stessa parola d’ordine – “soppressione dei partiti politici!” – tra i fautori del fascismo e nella filosofa Simone Weil, la quale, pochi mesi prima di concludere la sua breve esistenza, il 24 Agosto 1943 nel sanatorio di Ashford, stende le sue Annotazioni sulla soppressione generale dei partiti politici. Stupisce perché la Weil si stava dedicando ad una lotta senza quartiere contro il fascismo. Del fenomeno fascista aveva schizzato una genealogia, ne aveva mostrato l’origine nello “sradicamento” delle masse europee, e in “una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano” aveva cercato di individuarne anche l’antidoto definitivo. Per tale dichiarazione la biografa della Weil, Simone Pétrement, ha parlato giustamente di una vera e propria “professione di fede”. È una professione di fede ad un tempo civile e religiosa, anzi civile perché religiosa, dal momento che l’obbligo nei confronti del “bisogno” del prossimo, tanto del bisogno materiale quanto di quello spirituale, consegue al radicamento essenziale della creatura in un Bene situato “fuori dal mondo”.
Perché, allora, nella retorica della Weil i partiti (al plurale, proprio come si danno in una democrazia rappresentativa) divengono sinonimo “del male pressoché allo stato puro”? La domanda riveste un’attualità che non ha bisogno nemmeno di essere sottolineata. Non si può non ricordare come tutte le costituzioni post-totalitarie, e la nostra con più forza delle altre, presuppongano i partiti e specificatamente i partititi di massa. L’articolo 49 della Costituzione italiana afferma solennemente che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. La democrazia non è soltanto diritto universale di voto ma è concorso di una pluralità di associazioni private, denominate partiti, alla determinazione dell’indirizzo della vita pubblica. D’altro canto l’attacco al sistema dei partiti, la loro sistematica delegittimazione, è stata storicamente la via maestra battuta dai nemici della democrazia. Come negarlo? Inutile nascondersi dietro a un dito. Ciò che ancora oggi inquieta nell’antipolitica è proprio il suo retrogusto fascistoide.
Il Movimento Cinque Stelle di Grillo è un movimento “tecnicamente” rivoluzionario come rivoluzionario era il fascismo allo stato nascente. “Tecnicamente” vuol dire che, indipendentemente dai contenuti e, forse, anche al di là delle intenzioni dei suoi animatori, esso ha come sua finalità la sovversione del sistema dei partiti. Ne consegue che, come accade ad ogni movimento rivoluzionario in una fase rivoluzionaria, il suo principale obiettivo è la distruzione della forza politica che, all’interno del sistema, per la sua storia e per sua stessa esplicita volontà, meglio incarna la natura partitica della nostra democrazia rappresentativa. Non c’è dunque nessuna speranza per il Partito Democratico di poter trovare un punto d’accordo con i grillini. Per uno di quegli strani effetti prodotti dalla contro-finalità che anima la storia, un partito che ha una lontana origine comunista, e che quindi per un consistente tratto della sua storia ha avuto nella rivoluzione il suo orizzonte strategico, non è più in grado, a causa della sua metamorfosi nazionale, e, direi, “risorgimentale”, di comprendere la radicale eterogeneità al sistema di un movimento tecnicamente rivoluzionario. Ciò che gli uni vogliono comunque salvare – la democrazia rappresentativa fondata sulla pluralità di partiti – è quanto gli altri vogliono comunque affondare. Il dialogo è tra sordi. Lo si può verificare ogniqualvolta un esponente del Movimento Cinque Stelle prende la parola. Pare non rispondere alla domanda che gli viene posta, che poi è sempre la stessa: contribuirete voi, in modo “responsabile”, alla salvezza del sistema democratico (in Italia, la democrazia è sempre sotto ipoteca…)? In realtà non è stupido come talvolta può sembrare. Semplicemente non è “responsabile”, cioè non risponde, non accetta i presupposti di quella domanda, vale a dire quanto essa implica come premessa taciuta, e cioè la priorità del bene del paese sull’interesse rivoluzionario del movimento. La divergenza è strategica e annulla a priori ogni possibilità di convergenza tattica. L’inconciliabilità tra le due agende è assoluta.
A dare un retrogusto fascistoide all’antipolitica italiana non sono, dunque, tanto le tesi sostenute, le quali sono anzi in alcuni casi pienamente condivisibili, quanto le conseguenze automatiche di quel sillogismo che come sua premessa ha, appunto, proprio la parola d’ordine della Weil: abolizione dei partiti politici. Anche per una migliore intelligenza del nostro presente, bisogna allora chiedersi che cosa accomuna sul piano formale l’ipotesi fascista e l’ipotesi della Weil, un’ipotesi che quanto ai contenuti è antitetica a quella fascista. Come si può, insomma, proporre il medesimo nell’orizzonte di inconciliabili visioni del mondo? Il problema non era affatto nuovo quando la Weil lo sollevava. Qualche anno prima, quasi negli stessi termini, era stato posto da altri intellettuali ben noti alla Weil. Come non ricordare, infatti, la vicenda del Collegio di Sociologia promosso da Georges Bataille? L’intenzione degli apprendisti stregoni raccoltisi intorno al filosofo francese, e alla rivista “Acéphale”, non era forse proprio quella di scongiurare l’incipiente fascismo attraverso una specie di cura omeopatica, in grado di trasfigurare in un senso emancipatorio e sostanzialmente anarchico l’affettività (anti-istituzionale) mobilitata dal fascismo?
Note sulla soppressione dei partititi politici (Simone Weil, Beppe Grillo e Alfred N. Whitehead)