
L’EDUCAZIONE CHE C’È
EDITORIALE
Ciò che rende urgente interrogare il concetto di educazione è il suo dilagare in ogni ambito della realtà, il suo perdere i confini ben delimitati che aveva in precedenza, il suo presentarsi come indispensabile e allo stesso tempo come estremamente problematico. Educare ed educarsi ovunque, in ogni età della vita, viene visto come una priorità, giustificata da ottime ragioni, quasi tutte negative, legate a crisi di vario genere che fanno capo ai concetti di fiducia e di affidabilità. L’educazione non viene più considerata solo e semplicemente come l’azione di trasmissione di saperi e valori dall’adulto – genitore, insegnante, guida spirituale, comunità – ai membri ancora immaturi del gruppo, né come un periodo preparatorio con un inizio e una fine, dedicato all’apprendimento e all’assorbimento, concluso il quale si è pronti per assumere il proprio ruolo nella società.
Un’analisi comune e generalmente accettata di questo fenomeno lo collega al tramonto dell’autorità, al politeismo dei valori, alla complessità e al cambiamento. Le fonti educative non sono affidabili perché sono nel passato, e il passato è in discontinuità con il presente. I problemi non si consumano attraverso le soluzioni trovate per risolverli, non danno luogo a repertori riutilizzabili, perché hanno una nuova inquietante/entusiasmante natura, che consiste nel loro sprigionare ulteriori e discontinui problemi. Il cambiamento nella discontinuità, dunque, sembra lo snodo centrale delle questioni che ricadono sull’educazione e sull’educabilità, stringendola e stringendo la sua concettualizzazione in una morsa che ne spiega l’inevitabilità e l’instabilità, l’estrema rilevanza e la quasi irrilevanza.
Il cambiamento sarebbe talmente capillare e imprevedibile da richiedere una quota costante di adattamento e di apprendimento, quindi di educazione. Ma se l’educazione è richiesta da condizioni ambientali mutate e in continuo mutamento, la competenza sempre ancora da educare è quella che meno di tutte può essere trasmessa, perché non è in possesso di qualcuno che può disporne, consolidarla, plasmarla in modelli e infine trasferirla.
Questa consapevolezza non impedisce, anzi intensifica lo sforzo di trasformare materiali di esperienza in strumenti educativi, che è incessante e quasi ossessivo. Si tende a uniformare tutti i contesti in cui esiste l’esigenza di apprendere cose nuove a quello della produzione di risultati e della progettazione per obiettivi e indicatori. Occorre dimostrare che si serve a qualcosa, che si sta vendendo una merce buona, soppesabile, quantificabile, che darà frutti tangibili e fruibili dall’utente, che l’impatto dell’educazione c’è, non è fumo.
Non dimentichiamo poi che il nostro clima culturale ed estetico ha anche molta nostalgia per il fumo – pensiamo all’indimenticabile sceneggiatura di Paul Auster per Smoke («le cose più preziose sono più leggere dell’aria») – e che l’intreccio fra queste istanze avviene nonostante l’incompatibilità, con effetto straniante.
Come in molti casi umani si applica l’automatismo dell’edificazione: si fa come se il bisogno estremo, generato dalla crisi, di avere mezzi sempre più adeguati per affrontare la vita, la convivenza, il lavoro, la durata prolungata e la flessibilità di tutti e tre, generasse di per sé le risorse per l’adeguamento. Salvo poi rendersi conto con accenti critici radicali che le risorse non sono affatto adeguate (e come potrebbero?). Il punto è che ciò che dovrebbe essere – in senso esigenziale – non accade affatto necessariamente.
Le cose più interessanti che si sono viste in questo tempo nel campo pedagogico in senso lato non risiedono, ci pare, nei tentativi di riportare a forza ordine e disciplina, suggerendo paure di disfunzionamenti di vario genere. Esseri umani accelerati, riempiti di competenze “avanzate” e privati del tempo per sostare, riflettere, cercare, pensare, accorgersi, riconoscersi, attraversare i deserti, sono impediti di trovare il loro modo per farsi educare dalla vita e dalla morte, dalla verità e dalla sua mancanza, dalle esperienze e dai sentimenti, dai fallimenti e dalle alterità, perché la strategia cui sono indotti è aggrappata all’ottusa intenzione di dilazionarne l’incontro.
Affinché ciò che è reale e potente, nelle cose, nelle persone e nelle idee, dischiuda le sue potenzialità educative occorrono ricostituenti di vuoto, ma non basta. Chiamare a raccolta coraggio e pazienza, fatica e incoscienza, e non smettere di cercare di pensarle, queste virtù, in relazione a ciò che tocca loro di affrontare di volta in volta. Perché non è più lo stesso coraggio quello che occorre per essere padri e madri, o maestri, o persino padroni, in questo tempo, ma si è ugualmente padri e madri, e maestri, e persino padroni, non solo di sé. Ci si trova ad esserlo e a dover reinventare il coraggio, e lo stesso per le altre virtù.
Lo slalom fra la necessità di storicizzare i concetti, raccogliendo dal tempo i tratti che li riplasmano continuamente in quanto nozioni comuni, e quella di vigilare sulla loro portata di verità, sulla loro natura non solo espressiva ma rivelativa (per usare la distinzione di Pareyson), affidata al tempo per la rivelazione ma non tutta esaurita nella realtà contingente che la ospita, è lo sforzo che facciamo sempre in queste pagine.
In questo senso, le potenzialità del concetto di educazione, quelle che sono in grado di riaprire il reale quando quest’ultimo appare asfittico e nella morsa storica di contraddizioni che spengono le motivazioni, non vanno costruite, ma protette. Non dobbiamo, in altre parole, tener fermo a un concetto storico di educazione – quello del dizionario – e cercare qualcuno cui applicarlo, o qualcosa da insegnare comunque (ammaestramenti, pile di manuali su come si fa qualcosa). Né anestetizzare nelle giovani generazioni la conflittualità che chiede educazione, ma non quella che c’è. Il compito è quello di difendere e lasciar dischiudere ciò che di eterno e di eternamente trascendente il reale c’è nelle idee. Ma quella trascendenza interna ai concetti si dischiude a contatto con il reale delle aspirazioni, quello che aspira a superarsi. L’educazione che c’è non soddisfa, ma non tanto le esigenze del mercato o del lavoro, quanto il suo stesso concetto: su questo cerchiamo di lavorare.
Luciana Regina
Numero 10 – Educazione