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Numero 11 – Spazio

Num°11 SPACE
Fontana

LO SPAZIO NECESSARIO

EDITORIALE

Se Heidegger non fosse diventato da qualche tempo (e forse ancora per un po’?) una presenza imbarazzante per il pensiero, si potrebbe invitare a una riflessione sullo spazio – in filosofia, nella scienza, nell’architettura, eccetera – con qualcuna delle sue tautologie dinamiche, come queste:

«Lo spazio fa spazio (Der Raum räumt). Il fare spazio come sfoltire, sfoltire come diradare; diradare, liberare, render libero (Das Räumen als roden, roden als lichten, freimachen, freigeben)».

«Tuttavia come poter trovare quel che è proprio dello spazio (das Eigentümliche des Raumes)? […]. Nella parola spazio parla il fare – e lasciare – spazio (Darin spricht das Räumen) […].

Come accade il fare e lasciare spazio (Wie geschieht das Räumen)? È il fare-spazio-internamente (das Einräumen) […]? Innanzitutto il fare-spazio-internamente concede qualcosa (Einmal gibt das Einräumen etwas zu)».

In un tempo di saturazione, in cui lo spazio sembra innanzitutto non esserci (pensiamo ai cicli fotografici Tokyo Compression e Architecture of Density di Michael Wolf http://photomichaelwolf.com/#tokyo-compression/1), tornare a riflettere sullo spazio, che forse non c’è ma può prodursi, è forse un modo per riprendere la questione dell’essere.

Che dire “spazio” sia un modo differente per dire “essere”? L’essere sarebbe esso stesso una forma siffatta dello Ein-räumen, un fare-spazio-internamente? E lo Ein-räumen sarebbe, a sua volta, qualcosa come un concedere, oppure un aggiungere (zu-geben)?

Forse da sempre il pensiero – e la vita degli uomini e della natura – si sono trovati di fronte a problemi di spazio. Lo spazio, che non c’era, andava trovato. Ma dove? come? Attraverso le modalità aggressive della conquista? O forse attraverso una sorta di spaziamento interno, che mette/introduce per la prima volta uno spazio che non c’è? Non potrebbe essere questo il senso dello “sfoltire”?

Anche i dogmi cristiani sembrano trovarsi di fronte al rompicapo dello spazio-che-non-c’è: come fanno a starci due nature in una sola persona? Tre persone in un solo Dio?

Solo se lo spazio è physis, generazione di spazio, c’è speranza di guadagnare spazio in forme non semplicemente aggressive e/o redistributive.

Se lo spazio, forse ancor più del tempo, è il da-pensare della nostra epoca, una diversa idea di spazio – ancora da costruire – può diventare la premessa di modi differenti – più o meno umani – di vita in comune.

C’è un concetto “borghese” di spazio, che consiste nel tenersi le mani libere. Avere molto spazio a disposizione, perché gli altri non ci disturbino, è una forma – tra le più elementari – della volontà di potenza.

Se il mondo globalizzato è simile a un condominio, è indubbio che in esso c’è chi sta più largo e chi sta più stretto. Da questo nascono politiche aggressive di difesa del proprio spazio, e politiche proletarie di rivendicazione di spazi.

Anche l’etica sembra consistere in un fare spazio, in una specie di timidezza voluta e deliberata, in cui si sceglie di occupare poco spazio, o – al limite ­– nessuno spazio.

Perché lo spazio è qualcosa di fisico, e la fisica segue le leggi della distribuzione. Non si possono dare i ¾ dell’acqua all’impresario e i ¾ ai braccianti, come nel contratto ingannevole che don Circostanza propone alla firma degli ingenui cafoni nel romanzo Fontamara di Ignazio Silone.

E tuttavia, sia l’etica sia la politica sia la filosofia hanno bisogno anche di uno spazio diverso, al di là della distribuzione. Se la teoria della relatività ha offerto argomenti stringenti a favore della spazializzazione del tempo, quasi che ieri oggi e domani potessero essere tutti contemporanei, come lo sono qui e lì, la sfida del XXI secolo potrebbe consistere piuttosto nel temporalizzare lo spazio, come se qui e lì fossero assimilabili – viceversa – al prima e al poi.

“Qui”, dove per esempio c’è questa pianta, dovrebbe poterci stare anche altro, il che sarebbe possibile solo se allo spazio fosse intrinseco un movimento. Se, spazializzando il tempo, tutto diventa eterno, temporalizzando lo spazio saremmo sempre in ritardo, o in anticipo, su noi stessi. I luoghi arriverebbero troppo tardi, o troppo presto. Non solo non potrei andare da qui a lì se non nel tempo (il che è abbastanza ovvio), ma non potrei nemmeno essere dove sono, senza contemporaneamente essere andato oltre o non esserci ancora. Caricando lo spazio a tempo, come un orologio a molla, la pianta non sarebbe dov’è, e uno stesso luogo sarebbe sempre vuoto e pieno al contempo. Non sarebbe un universo di possibilità: non potrei ricuperare in qualunque momento il me di allora, come ci illudiamo oggi; piuttosto, di impossibilità: non coinciderei mai col me di adesso, ma sarei dislocato. Il problema non è, dal punto di vista psicologico, tenere sempre aperte tutte le possibilità (come se – vecchio – potessi ancora essere giovane), quanto piuttosto aprire ogni singola realtà, come se in ogni dire ci fosse un disdire (come se il sostenere già ammettesse e concedesse [zugeben]).

Dire che il tempo si è fatto breve, e che chi piange dovrebbe vivere come se non piangesse, chi gode come se non godesse, come afferma San Paolo, potrebbe significare anche questo: in ogni luogo di un accadere (nel luogo del piangere, come del ridere), dovrebbe sempre poterci stare anche altro. Il problema non è tenersi una via di uscita, quanto piuttosto – al contrario – lasciare aperta un’entrata. Se possiedo i ¾ dell’acqua, poi – ma in un poi che è adesso, qui – devi poterli possedere anche tu. Ogni luogo deve avere una storia, non solo quella naturale del succedersi delle generazioni, ma quella impossibile della compossibilità di ciò che altrimenti si esclude. Che è un altro modo di pensare l’intreccio di spazio e tempo, non nell’arena borghese delle possibilità, ma sotto il libero cielo dell’impossibile. Fare stare ¾ di acqua dove altrimenti ne resterebbe ¼ soltanto, non è meno difficile di un viaggio nel tempo, è solo più urgente.

 

Enrico Guglielminetti

Numero 11 – Spazio

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