
Comprendere l’essere umano secondo la prospettiva della sua allocazione trascendentale, cioè nella sua natura di essere spaziale/spazializzante che vive, pensa, sente, agisce sempre in un “dove”, secondo un nesso di luogo che è intimo e costitutivo, sembra implicare una considerazione della dimensione del limite come esplicabile in maniera evidente ed ovvia nel senso della chiusura. Sembra comportare, peraltro, una inevitabile opzione conservativa, da intendersi in senso regressivo: come se il vincolo di luogo non potesse che essere compreso costringente lo sguardo al già dato, alla stratificazione del passato, all’interno del cerchio condizionante del pre-costituito e nel senso dell’incapacità di affaccio al nuovo, di configurazione dell’alternativo, di accoglimento del differente. Accade che ne derivi, in una consecutio piuttosto pragmatica che speculativa, gravida però di conseguenze disseminate ancorché spesso latenti, l’assunzione immediata del “vincolo di luogo” come ciò che si tratta di superare, ciò da cui liberarsi per poter aspirare alla libertà delle persone libere: sia dal punto di vista teorico, della libertà del pensare, sia nella prospettiva pratica della libertà di agire.
Il gesto filosofico, però, che si offre come resistenza all’imposizione di significati precostituiti e come disposizione alla profondità della riflessione radicale, consente di aprire lo spazio di un pensare “spregiudicato” capace di discernimento e reclama che la questione del luogo sia ripresa con rinnovato vigore: per interrogare la pertinenza fenomenologica e la potenza euristica della significazione corrente e mettere in valore quella forza visionaria che alimenta ogni vero pensare. Si offre così l’occasione anche per riflettere in generale sul significato dei vincoli di cui l’umano si trova ad essere costituito. Nella loro costitutività, appunto, vengono a mostrarsi, per il tramite del luogo, non semplicemente come un impedimento di cui cercare di liberarsi, da cui riuscire in ogni modo a prescindere, ma piuttosto come la materia di cui l’umano è intessuto, di cui vive: come risorsa quindi, che si tratta piuttosto di imparare a praticare in modo fecondo.
Non si vuol fare del “fisicalismo”, ma cercare di rimanere fedeli a quelle che sono le condizioni reali dello stare al mondo: perché non crediamo che l’umano debba essere riconosciuto degno, e all’altezza di sé, solo allorché lo si comprende come capace di prescindere dai vincoli e dalle condizioni che configurano la sua umanità. Solo rendendo ragione dell’umano “in carne ed ossa”, peraltro, si possono aprire scenari non ideologici per un giudizio sui modi di esistenza e prospettive sincere in direzione di una umanità sempre più compiuta.
Si tratta allora di cercare di comprendere, rintracciando e leggendo il modo in cui l’essere si manifesta nel percepibile e nell’esperienza, ciò che non è immediatamente evidente: non si tratta di riuscire a vedere “dietro” a ciò che si dà, ma nella sua profondità.
1. Non si può vivere senza limiti…
L’essere umano “viene al mondo”, esistere è per lui trovar posto, esser-ci. Imparare a vivere implica il compito di familiarizzarsi e orientarsi, saper “stare al mondo” evitando la confusione, la dispersione, la dissipazione, l’isolamento e l’omologazione. Non ci si limita a registrare lo spazio, né si può dire che esso sia un’idea oppure un contenuto di pensiero che in qualche modo si ricava dai dati d’esperienza. Lo spazio è piuttosto, radicalmente, una forma in cui avviene l’incontro tra gli esseri umani e con le cose, si costituisce da questi rapporti come modo del loro strutturarsi. Quindi non si può dire che lo si esperisce allo stesso modo in cui si ha esperienza dei fenomeni, dei processi cioè che accadono in esso, ed è difficile parlarne perché nessuna narrazione può davvero prescinderne. Perciò dell’essere umano si dice propriamente che abita.
Per la “coscienza di luogo”