
1. Enunciare all’inizio di un saggio la tesi che s’intende “dimostrare”, se ha il pregio di mettere il lettore nella condizione di poter subito scegliere se continuare o lasciare, riduce però di molto la sorpresa, che, anche in un testo che non rientra nel genere letterario della narrativa, giuoca un ruolo non trascurabile. Resterebbe la meraviglia che la tesi può destare, ma nel caso nostro anche su questa c’è poco da contare. Perché la tesi che presentiamo – noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»). S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.
2. Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri‑flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.
Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo. Esaminava gli estremi dall’alto della loro relazione. Perciò era convinto di sapere come muoversi bene nel circolo. Ma – questa la domanda – la “visione” della relazione non è anch’essa interna alla relazione? L’orizzonte del Tutto non è anch’esso una “prospettiva” sul Tutto? E non è questa l’esigenza più propria del “finito” che voglia rispettare la sua finitezza? Ma (ancora un interrogativo): l’affermazione che la “visione” del Tutto è pur essa solo una prospettiva interna al Tutto, non presuppone il Tutto di cui è “parte”? Sembra che del Tutto non si possa fare a meno. Ma cos’è il Tutto presupposto alla visione del Tutto? Son pari il Tutto e la visione del Tutto, o c’è differenza? E quale differenza può stabilirsi tra i due, senza che la “visione” della differenza non inglobi in sé entrambi i termini?
Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.
Ma, si diceva, non c’è scelta; chissà che alla fine il vizio del circolo non si riveli la sua possibile virtù.
L’etica dello spazio (una riflessione topologica)