
L’educazione all’identità nazionale, promossa dalla classe dirigente, prima subalpina e poi italiana, si articola in una serie di iniziative eterogenee finalizzate a coinvolgere le diverse fasce d’età della popolazione: se la scuola, soprattutto quella elementare, rappresenta il canale privilegiato attraverso cui veicolare nelle giovani generazioni il senso di appartenenza a una patria comune, la riorganizzazione degli spazi urbani, valorizzati anche sotto il profilo sociale come luoghi di aggregazione e celebrazione collettiva (si pensi, ad esempio, alla festa della nazione), costituisce il fulcro di una più ampia strategia volta a far leva sull’immaginario e sulla sfera emotiva degli adulti analfabeti con il ricorso a immagini, suoni e colori. Le note ricerche di Bruno Tobia hanno, infatti, messo in evidenza l’attuazione, nelle principali città del regno, di una graduale ma sistematica politica d’intervento nella ridefinizione della toponomastica, nell’erezione di monumenti e nell’apposizione di targhe e iscrizioni dall’alto valore simbolico per il processo di unificazione della penisola.
Torino, al pari di Roma, si configura come esempio paradigmatico di questa tendenza definita dagli storici “pedagogia degli spazi urbani”: presenta, tuttavia, dei tratti peculiari che derivano da una storia quasi millenaria all’ombra dei Savoia.
1. Nel solco della tradizione
Nel 1859, quando le aspirazioni del popolo italiano all’indipendenza e all’unità cominciarono ad assumere una forma concreta e definita, gli abitanti del capoluogo piemontese avevano con la monarchia sabauda un legame profondo che, costruito e consolidato nel tempo, oltrepassava i confini della sfera politica e amministrativa per costituire un forte elemento identitario. Nel corso delle generazioni, i torinesi avevano sviluppato, infatti, nei confronti della casa regnante, sentimenti di obbedienza e di fedeltà, ma anche di fiducia, di devozione e di affetto. Numerosi sono gli episodi che attestano l’esistenza di questo particolare rapporto, capace di vincere anche la distanza conseguente allo spostamento della dimora dei Savoia a Firenze e poi a Roma. Gli avvenimenti legati alla morte di Vittorio Emanuele II ne sono una conferma: dal messaggio di cordoglio inviato al figlio Umberto dalla municipalità, «avvezza a far suoi i dolori de’ suoi Principi», alla rivendicazione della salma del sovrano in nome di una presunta primogenitura («Oh Romani! Lasciate in mezzo a noi colui che prima di voi abbiamo amato»), all’invito al nuovo re a compiere la sua prima visita istituzionale nella città che conservava intatto l’attaccamento alla dinastia («Qui il cielo non è mutato, non sono mutati gli animi, né scemato il coraggio delle genti, né la loro devozione alla Vostra Stirpe»).
L’identificazione con i Savoia legittimava la primazia risorgimentale riconosciuta al Piemonte e, in particolare, a Torino, “culla”, per ragioni ideali e storiche, dell’epopea italiana: essa, infatti, simboleggiava, nelle diverse zone della penisola, il luogo di difesa e d’irradiamento delle libertà costituzionali e la terra in cui aveva avuto inizio la sanguinosa lotta contro la dominazione straniera. Era una posizione di privilegio, conservata gelosamente e motivo di orgoglio per l’intera cittadinanza; una posizione che, ridimensionata sotto il profilo politico con il “doloroso” trasferimento della capitale nel capoluogo toscano, si alimentava del culto della memoria delle recenti vicende gloriose.
È in questo quadro che si colloca la scelta dell’amministrazione comunale, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, di attribuire a piazze e a vie i nomi delle località delle vittoriose battaglie delle guerre d’indipendenza e dei valenti uomini dell’esercito subalpino: dal tributo a Goito e al generale Eusebio Bava che il 30 maggio 1848, in quella sede, fu l’indiscusso trionfatore al ricordo delle gesta eroiche dei comandanti Giuseppe Luigi Passalacqua ed Ettore Perrone di San Martino, morti nella disfatta di Novara (23 marzo 1849); anche la fortunata campagna del 1859, che portò all’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, è celebrata con il richiamo alle più significative tappe dell’avanzata franco-italiana (Montebello, Palestro, S. Martino e Solferino, Vinzaglio). Non poteva mancare il riferimento alla monarchia e alla diplomazia piemontese: dalla duplice dedica di piazza e via a re Carlo Alberto e al conte Camillo Benso di Cavour alla scelta di intitolare una strada a Luigi Des Ambrois de Névache, figura di primo piano all’epoca delle riforme costituzionali e artefice della pace negoziata con l’Austria al Congresso di Parigi. In alcuni casi si tratta di nuovi spazi nell’ambito del progressivo processo di ampliamento che caratterizza Torino nel corso del XIX secolo, in altri di una semplice ridenominazione di quelli già esistenti, designati fino ad allora con appellativi desunti dalla tradizione militare e religiosa o legati alle attività economiche: se piazza S. Martino si chiamava, all’inizio, piazza d’Armi, via Montebello, prolungata dopo il 1859 fino a corso S. Maurizio, era detta del Cannon d’oro; se piazza Solferino era nota come vecchia piazza della legna, a motivo del mercato che in essa aveva luogo, via Bava e via Carlo Alberto erano conosciute, anticamente, come via S. Massimo e via Madonna degli Angeli.
La pedagogia degli spazi urbani: Torino città risorgimentale