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Introduzione a un’antropologia dei centri

Num°11 SPACE
Centro

l. Il fascino del centro

Può esistere una società senza centri? Possono stare insieme e interagire degli individui senza che si evidenzino o si impongano certi luoghi speciali nell’area della loro convivenza? È concepibile una società come uno spazio uniforme, o non piuttosto essa coincide – e in senso non soltanto metaforico – con un territorio variegato, in cui emergono, se non altro, dei punti di riferimento? Si può descrivere compiutamente una società senza fare ricorso a una nozione come quella di centro? E in effetti quante sono le monografie etnografiche – si riferiscano a bande di cacciatori-raccoglitori o a società più articolate, quali sono raggruppate nelle categorie dei “domini” e degli “stati” – che impiegano il termine “centro”? Non appena si decide di prestare attenzione a un tratto, a un aspetto o a un termine, può succedere che esso balzi agli occhi con una frequenza inaspettata. E questo è propriamente il caso del termine in questione.

Sia pure a uno sguardo improvvisato e sommario, la letteratura etnologica, di qualunque area culturale e tipo di società si occupi, manifesta infatti un impiego molto diffuso della nozione di centro. Se questo impiego generalizzato milita a favore della tesi secondo cui è pressoché inevitabile che nel descrivere una società si faccia ricorso alla nozione di centro, esso pone in luce tuttavia un altro aspetto della fruizione antropologica di questo concetto, vale a dire il suo uso pressoché automatico e meccanico, scarsamente consapevolizzato e teorizzato – un uso che, a quanto ci risulta, trova il suo analogo in discipline attigue all’antropologia culturale, quale può essere la geografia, nonostante che si occupi professionalmente di organizzazione dello spazio. Ma per limitarci all’ambito disciplinare che qui più ci interessa, occorre chiedersi se l’impiego diffuso e meccanico, nonché la scarsa teorizzazione della nozione di centro siano da intendersi come una semplice situazione di fatto, a cui si potrebbe, volendo, porre rimedio, o se questi due aspetti, ovviamente complementari, non rinviino a un problema più significativo e che, forse, varrà la pena di esplorare.

Dalla domanda a) se la nozione di centro sia un universale sociale e culturale (può forse darsi una società senza centri?), siamo passati alla constatazione b) della sua importanza o, meglio, inevitabilità descrittiva e analitica, per porre infine la questione c) del perché l’antropologia – la disciplina che più di ogni altra dovrebbe appunto occuparsi (sembrerebbe) di universali culturali – sia piuttosto refrattaria a una sua teorizzazione esplicita, mentre è prodiga di un suo impiego generalizzato. Che questi tre momenti siano tra loro connessi è comprovato dal fatto che, se intendiamo conoscere una qualche teoria che illustri il carattere di universalità della nozione di centro, conviene puntare decisamente lo sguardo al di là dei confini dell’antropologia.

Così, per esempio, si potrà fare ricorso a uno studioso di psicologia della percezione visiva come Rudolf Arnheim, il quale non soltanto ritiene che ogni sistema, fisico o mentale, è caratterizzato dal modo in cui si organizza attorno al “centro” del proprio essere, ma elabora le coordinate e i criteri generali mediante cui ciò avviene. È vero che lo studio di Arnheim, a cui ci stiamo riferendo, è ben circoscritto alle arti visive e alle loro manifestazioni occidentali, ma la sua tesi di fondo non è affatto priva di un’aspirazione universalistica: la duplicità, l’interazione e l’integrazione tra due sistemi spaziali, chiaramente individuati fin dalle pagine introduttive – vale a dire a) il reticolo cartesiano, costituito di verticali e di orizzontali, e b) la centricità, funzionante per l’orientamento – sarebbero infatti una caratteristica costante del «comportamento spaziale degli esseri umani e di altri organismi», per cui la struttura compositiva o le modalità di costruzione delle opere d’arte, cosi come vengono analizzate nella prospettiva di Arnheim, dovrebbero riflettere la natura dell’esperienza umana, ovvero il «mutuo gioco fra dramma e armonia».

Ricercando ora studiosi che più globalmente e direttamente connettono la nozione di centro alla cultura o alla società umana, ancora una volta si fanno avanti autori che non sono esponenti professionali dell’antropologia. Non si è voluto per quest’occasione dar luogo a un’esplorazione sistematica; dal punto di vista in cui ci stiamo ponendo sarà sufficiente riferirci a due casi considerati nella loro emblematicità. Il primo di questi è un nome importante della storia delle religioni, Mircea Eliade, nella cui opera la nozione di centro si configura non solo come un Leitmotiv ricorrente, ma come un concetto chiave e un teorema fondamentale. Per Eliade il “centro” è presente all’umanità da sempre, da quando almeno gli uomini si sono introdotti in uno spazio organizzandolo, conferendo ad esso una forma, cercandovi un orientamento. L’atto preliminare per la costituzione di uno spazio organizzato è, secondo Eliade, una «spaccatura» – quindi una separazione –; ma il suo momento fondamentale è l’individuazione di «un “punto fisso” assoluto, un “Centro”», il quale funge da «asse centrale di ogni orientamento futuro»: tutta l’organizzazione spaziale successiva, così come l’intera vita umana nella sua globalità e funzionalità, trovano come inizio e fondamento il «Centro». L’uomo ha da vivere per Eliade in un «Mondo», un «Cosmo», ovvero in una realtà che abbia un ordine e nella quale – proprio in virtù del Centro – sia possibile orientarsi. Ma ciò che conferisce al centro il suo potere, la forza di organizzare un Mondo, è il suo carattere totalmente «sacro»: «la manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo», afferma Eliade, e si sa quanto per questo autore l’esperienza del sacro sia originaria e fondamentale, a tal punto che al di fuori di questa esperienza l’uomo si troverebbe in uno spazio «omogeneo» e «amorfo», privo di struttura e di consistenza, in una «distesa informe», nella quale, senza un centro e un orientamento, non saprebbe vivere. Se è il centro ciò che conferisce un orientamento, è a sua volta la religione ciò che dà la possibilità di costituire un centro. In Eliade la nozione di centro svela il suo carattere originario e universale, proprio perché è prima di tutto una nozione religiosa, una manifestazione del sacro, una ierofania.

Sarebbe persino troppo facile smentire da un punto di vista etnologico (e pure etologico) queste tesi di Eliade. Se le abbiamo esposte – sia pure in sintesi estrema – è per dimostrare ciò che si potrebbe chiamare il fascino del centro, ovvero il potere di suggestione che esso manifesta in certi casi e su certi autori: «potere del centro» dunque – per riprendere la felice espressione di Arnheim – non soltanto nelle varie società umane, ma anche sugli autori che le indagano o che utilizzano questa nozione per spiegare quale sia il senso dell’umanità o della cultura umana. Potrà sembrare strano, ma il fascino del centro è una sindrome che affiora anche in studiosi assai lontani – almeno a prima vista – dalla prospettiva fortemente religiosa di Eliade.

Il secondo caso emblematico di cui intendiamo parlare si colloca ancora al di fuori dell’antropologia, giacché si tratta delle riflessioni che il sociologo americano Edward Shils ha dedicato alla nozione di centro. «La società ha un centro. Vi è una zona centrale nella struttura della società»: così esordisce il saggio di Shils in cui egli espone più chiaramente le sue riflessioni. Non si tratta però di un centro geometrico, né di un centro geografico, poiché il centro della società è costituito da due dimensioni che si implicano a vicenda: una dimensione simbolica e una dimensione istituzionale. Il centro della società – afferma Shils – «è il centro dell’ordine dei simboli, dei valori e delle credenze che governano una società», così come «è una struttura di attività, di ruoli e di persone all’interno della rete delle istituzioni». Rispetto a Eliade, Shils adotta un linguaggio notevolmente diverso, derivante da un’elaborazione concettuale che ha avuto in Max Weber e in Talcott Parsons i maggiori teorizzatori. Ma, a proposito del centro, è abbastanza agevole reperire in Shils alcune tesi che richiamano le posizioni di Eliade. Anche per Shils il «centro» è intimamente collegato alla religione: «la zona centrale» – egli afferma – «partecipa della natura del sacro»; se questo è vero, ogni società – non importa quanto secolarizzata essa sia – «ha una religione “ufficiale”». Dire società significa dire centro, perché è il centro ciò che fornisce i valori, i simboli e le motivazioni per l’aggregazione e la coesione sociale; ma dire centro significa alludere a una zona della società in cui questi valori non soltanto sono più organicamente condivisi, ma anche più indiscutibilmente imposti. La zona centrale della società è infatti contrassegnata – secondo Shils – da un centro ancor più fondamentale, che è costituito da un «ordine» di cui le autorità centrali sono gli agenti. Non importa se quest’ordine sia incorporato e considerato immanente in queste autorità o se venga ritenuto trascendente rispetto ad esse, onde fornire criteri di valutazione del loro stesso comportamento; il principio che rimane costante è che il centro della società è rappresentato da autorità, e l’autorità implica sempre una dimensione sacrale, così che Shils può definire il centro come «il luogo del sacro».

Tanto in Shils quanto in Eliade la nozione di centro esibisce dunque un significato religioso. Ma il parallelismo può essere ulteriormente approfondito, non appena teniamo conto del fatto che il nesso tra centro e religiosità (o sacralità) non è – per gli autori qui considerati – un prodotto storico o meramente culturale. Per quanto le condizioni storiche, ambientali e culturali possano intervenire a modificare questo nesso, si tratta pur sempre di variazioni su un tema di fondo che svela la sua costanza, anzi la sua universalità propriamente umana. Come per Eliade, al di sotto della «infinita varietà delle esperienze religiose dello spazio», occorre rintracciare «i loro elementi di unità», vale a dire il modo di essere nel Mondo dell’homo religiosus, così per Shils il bisogno tipico degli esseri umani di venire incorporati in un qualcosa di trascendente, di identificarsi in un ordine più ampio dei loro corpi individuali e più centrale della loro esistenza quotidiana è sì alimentato dalla tradizione, ma non è un suo risultato: «la tradizione» – egli afferma – «non è il seme di questa inclinazione ad aderire a un ordine politico». Ciò che la nozione di centro svela tanto per Shils quanto per Eliade è qualcosa di più profondo dei condizionamenti storici e delle variazioni culturali, qualcosa che attiene direttamente all’umanità, alla natura e alla socialità umana. Come già in Arnheim, anche in Eliade e in Shils – sia pure con percorsi molto diversi nei tre casi – la nozione di centro sembra veicolare aspirazioni o pretese universalistiche di non poco conto.

Introduzione a un’antropologia dei centri

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Numero 11 SPACE luglio, 2014 - Autore:  Condividi

 

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