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La bellezza eteronoma dello spazio artefattuale

Num°11 SPACE
Fountain_Court_London

Cominciamo da un esempio: da una piazza con una fontana. La fontana ha due caratteristiche distintive: la prima è che l’acqua è all’altezza del suolo (e l’effetto è l’idea di un lago che arriva quasi ai pi­edi di chi attraversa la piazza), la seconda è che una parte del bordo della fontana è circondata da panchine di pietra, che sorgono dal suolo in continuità con la sua materia, e che hanno schienali arrotondati a forma di onde (e l’effetto è l’idea, rafforzata, di un lago con le sue onde, ma anche di u­na sabbia du­nosa attorno al lago). La prima impressione è che la piazza con la fontana sia bella. Poi ci sediamo sulle panchine, e scopriamo due cose, se non altro: la prima è che non possiamo stare se­duti per più di pochi minuti, perché le curvature degli schienali di pietra a contatto con le nostre spi­ne dorsali sono quasi stilettate, la seconda è che non possiamo girarci verso l’acqua, perché le panchine sono orientate verso l’esterno. Allora, sentiamo affiorare nelle nostre teste una domanda: “Si­amo sicuri che la piazza con la fontana è bella?”. E ci ricordiamo di un passaggio della Repubblica di Platone, del quale, adesso, sentiamo di capire di più una parte del significato:

«“Il pittore, diciamo, dipingerà briglie e morso?”. “Sì”. “Ma li fabbricheranno il cuoiaio e il fabbro?”. “Senza dubbio”. “E il pittore s’intende di come devono essere le briglie o il morso? O non se ne intende nemmeno chi li fabbrica, il fabbro e il cuoiaio, ma chi sa usarli, il solo cavaliere?”. “È verissimo”. “E non diremo che è così per ogni altra cosa?”. “Come?”. “Che per ciascuna esistono, in certo modo, queste tre arti: quella che la userà, quella che la fabbricherà, quella che la imiterà?”. “Sì”. “Ora, virtù, bellezza, regolarità di ciascun oggetto, di ciascun animale e di ciascuna azione non esistono se non in funzione del­l’uso per cui ciascuno è fabbricato o ha naturale costituzione?”. “È così”. “Allora chi usa ciascun oggetto deve per forza averne esperienza e comunicare al fabbricante quali siano gli effetti, buoni o cattivi, che l’oggetto da lui usato produce nell’atto dell’uso. Per esempio un auleta comunica al fabbricante di auloi i dati relativi agli auloi che gli servono quando suona. Gli darà le direttive sui vari requisiti da tenere presenti nella fabbricazione, e quegli le attuerà”. “E come no?”. “Ora, se il primo segnala qualità e difetti degli auloi, non lo fa perché sa? E il secondo non li fabbricherà perché gli crede?”. “Sì”. “Quindi il fabbricante sarà sem­pre in buona fede sulla perfezione o sull’imperfezione di un utensile, si tratti pure del medesimo: ciò perché frequenta chi sa e ha l’obbligo di ascoltarlo. Invece chi usa quell’utensile, ne avrà scienza”. “Senza dubbio”. “E delle cose che dipinge, siano o no belle e rette, l’imitatore avrà scienza derivante dall’uso? O ne avrà retta opinione perché è obbligato a frequentare chi sa e a riceverne le direttive sui soggetti da dipingere?”. “Né questo né quello”. “E allora sulle cose che imita, considerate in rap­porto alla loro perfezione o imperfezione, l’imitatore non avrà né scienza né rette opinioni”. “Sembra di no”. “Carino davvero sarebbe l’imitatore della poesia, se si considera quanta è la sua sapienza negli argomenti trattati!”. “Non troppo”. “Eppure imiterà, senza sapere quali siano i difetti o i pregi di ciascun argomento. A quanto sembra, imiterà ciò che appare bello ai più, che non sanno nulla”. “E che altro dovrebbe fare?”. “Su questo punto, almeno a quello che sembra, siamo abbastanza d’ac­cordo: l’imitatore conosce solo un poco le cose che imita, e l’imitazione è uno scherzo e non una co­sa seria”».

Platone ci insegna che «virtù, bellezza, regolarità di ciascun oggetto, di ciascun animale e di ciascuna azione non esistono se non in funzione del­l’uso per cui ciascuno è fabbricato o ha naturale costituzione». Allora, se voglio fare una cosa bella, devo ascoltare «chi usa ciascun oggetto», che «deve per forza averne esperienza e comunicare al fabbricante quali siano gli effetti, buoni o cattivi, che l’oggetto da lui usato produce nell’atto dell’uso». Viceversa, non fondare la cosa che faccio sul suo «uso» significa «imita[re]», cioè fare una cosa che non è bella: «l’imitatore», che «conosce solo un poco le cose», fa «ciò che appare bello ai più, che non sanno nulla», cioè fa «uno scherzo e non una cosa seria». Mutatis mutandis, le panchine ostili al loro «uso» non sono belle: «appa[iono] bell[e] ai più, che non sanno nulla», cioè sono «uno scherzo e non una cosa seria».

La ragione per la quale la bellezza è fondata anche sull’uso è importante. La nozione antica di bellezza è “eteronoma”: una cosa può essere bella se le “leggi” della sua dimensione estetica sono date anche dalle “altre” sue dimensioni identitarie (ad esempio, una panchina può essere bella se le “leggi” della sua dimensione estetica sono date anche dalle “altre” dimensioni che definiscono il su­o statuto identitario: che genere di cosa è una panchina? In particolare, che genere di interazione c’è tra una panchina e un essere umano? Rispondere significa parlare anche di uso).

L’eteronomia della nozione antica di bellezza è importante perché fa riferimento a qualcosa di ambizioso e sofisticato: dire che una panchina deve sapere rispondere alle domande citate per potere essere bella significa dire che la nozione di bellezza ha a che fare con la nozione di misura umana. Il significato del riferimento della techne antica alla natura è il seguente: studio, in particolare, l’acme della natura, che è il kosmos, cioè l’ordine del cielo, e imparo da lì le regole di costruzione della bellezza – ma la bellezza del kosmos è, soprattutto, la bellezza della cosa che ha il potere di definire la misura umana, cioè le mie misure spaziotemporali di essere umano, che oriento il mio spazio attraverso l’ordine del cielo (dal quale imparo a distinguere, ad esempio, il nord, il sud, l’est e l’ovest) e oriento il mio tempo attraverso l’ordine del cielo (dal quale imparo a distinguere, ad esempio, i gior­ni, i mesi, le stagioni e gli anni). Allora, parlare di eteronomia della bellezza significa parlare di una bellezza che, attraverso il riferimento alle altre dimensioni identitarie delle cose, tra le quali il loro uso, fa riferimento a qualcosa di ambizioso e sofisticato, cioè alla misura umana: alle nostre misure spaziotemporali di esseri umani.

La bellezza eteronoma dello spazio artefattuale

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Numero 11 SPACE luglio, 2014 - Autore:  Condividi

 

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