
Lo sviluppo storico del mondo occidentale, in particolare europeo e, soprattutto, italiano, ci consegna una concezione dello spazio dell’architettura che coincide con la città. La cultura urbana che si sviluppa in Italia e, per osmosi, in Europa arriva gradualmente alla messa a punto di un sistema basato sul principio insediativo dell’isolato (derivato dall’insula romana) e sull’unità di circolazione primaria costituita dalla via. La maglia, più o meno regolare, delle vie e degli isolati è interrotta dai vuoti costituiti dalle piazze sui quali si affacciano, solitamente, i fatti urbani rilevanti costituiti dagli elementi eccezionali, i monumenti (gli edifici di culto, i luoghi del potere politico-amministrativo-militare, le istituzioni culturali e i grandi luoghi di divertimento e spettacolo quali le arene, i teatri, gli stadi). Questo sistema ha un’evoluzione, lenta e, in alcune fasi storiche, interrotta e ripresa, che copre un arco temporale di tremila anni. La maturazione è rappresentata dalla città europea di fine ottocento, ben descritta nei racconti di Proust, Svevo e Joyce. Le lettere che Friedrich Nietzsche scrive da Torino tra il settembre del 1888 e il gennaio del 1889 sono, oltre alla testimonianza del passaggio alla “follia” del filosofo tedesco, anche un preciso affresco della qualità dello spazio urbano europeo all’apice del suo sviluppo prima della crisi e della cosiddetta “rottura” rappresentata dalle avanguardie. Lo spazio vitale di Friedrich Nietzsche è costituito dalla camera con vista su palazzo Carignano, manufatto generato dalla radicale sperimentazione plastica di Guarino Guarini, sulla piazza Carlo Alberto e sulle verdi montagne in lontananza. Lo spazio minimo della camera, l’“Existenzminimum”, si dilata, nella vita quotidiana trascorsa tra i caffè, in particolare il Romano (l’attuale cinema), le trattorie dispensatrici di ottima cucina (la “migliore del mondo”), i concerti delle opere di Bizet e Goldmark, i portici percorsi camminando sul tappeto lapideo del selciato in pietra di Luserna, alla città. «Grande città, e tuttavia silenziosa, aristocratica, con persone di ottimo stampo in ogni classe sociale». Lo spazio della città è, quindi, un fatto sociale, che si sviluppa nel tempo come processo collettivo e, potremmo dire, come architettura totale che contiene e facilita le molteplici funzioni della vita (le attività dell’uomo). La città costruita, come esperita ad esempio da Friedrich Nietzsche a Torino, ha rapporti spaziali precisi che sono basati sulle dimensioni umane. Un isolato urbano è riferito ad un quadrato di 100 metri di lato ed è percepibile, nella sua interezza, dalla vista di una persona. La scala della città storica, nel caso esemplare di Torino, è una scala a misura d’uomo ed è caratterizzata, fino all’inizio del novecento, da una crescita proporzionale e armonica sempre riferita ai medesimi moduli di base lentamente perfezionati. La scala della città si mantiene, e in molti casi si rafforza, anche con le sperimentazioni spaziali del barocco e del tardo barocco. Il superamento della scissione tra spazialità interna ed esterna e il ripiegamento della materia che costituisce l’architettura, la “piega” di cui parla Gilles Deleuze, viene attuato dagli architetti europei a cavallo tra seicento-settecento con il supporto dei filosofi-matematici, in primis Gottfried Wilhelm Leibniz. La riverberazione nella città storica della “curvatura dell’universo” introduce una forma di dinamismo controllato e consapevole nei fatti urbani, attuata in particolare da Carlo Borromini a Roma, Filippo Juvarra e Guarino Guarini a Torino, Bernhard Fischer von Erlach a Vienna e Salisburgo. Le rappresentazioni di Roma come città barocca raccolte nelle incisioni di Giovan Battista Piranesi ci trasmettono con efficacia l’interazione raggiunta in quella fase storica tra ricerca architettonica e qualità urbana.
Con il novecento e l’avanguardia, alla città storica, che permane nonostante gli intenti demolitori esposti nei manifesti di Filippo Tommaso Marinetti, si affianca e, in certi casi, si sovrappone la città moderna, che introduce modelli e principi insediativi nuovi. Ad esempio: la “ville radieuse”, proposta da Le Corbusier, e la “città giardino”, sviluppata nel mondo anglosassone sulla base delle idee di William Morris e dei progetti di Raymond Unwin. Allo spazio denso della città storica si contrappone la concezione di uno spazio rarefatto dove l’architettura, da sempre fatto artificiale, si integra con aree naturali progettate. I modelli nuovi introdotti dall’architettura razionalista sono il prodotto sia della civiltà della macchina che del ricorso all’invenzione di morfologie insediative. In un certo qual senso il procedere in astratto delle avanguardie ha delle affinità con alcuni esiti prodotti dalle culture del rinascimento e dell’illuminismo quando questi utilizzano lo spazio della città costruita per ottenere prefigurazioni della città ideale. Cito per tutte il celebre quadro di Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, intitolato Capriccio con la Basilica di Vicenza, il progetto di Palladio per il Ponte di Rialto a Venezia e uno scorcio di Palazzo Chiericati di Vicenza dipinto tra il 1755 e il 1759. I tre monumenti palladiani, dei quali uno rimasto sulla carta e due realizzati in città diverse, costituiscono nel quadro una sorta di città virtuale dove l’architettura si astrae dai processi reali per acquisire uno stato di autonomia. La città moderna, pensata in astratto dagli architetti delle avanguardie, non raggiunge l’effetto di qualità urbana della città storica, probabilmente anche per questa condizione “ideologica” che ne ha costituito i prodromi.
Nel 1963 l’architetto francese Claude Parent e il filosofo Paul Virilio formano a Parigi il gruppo “Architecture Principe” con l’intenzione di investigare nuove forme di organizzazione architettonica e urbana che vadano oltre la cultura dell’avanguardia espressa fino a quel momento dal movimento moderno in architettura. La loro ricerca muove dal rifiuto delle due fondamentali direzioni dello spazio euclideo. Proclamano la “fine della verticale come asse dell’elevazione” e la “fine dell’orizzontale come piano permanente”. In luogo dell’angolo retto adottano la “funzione dell’obliquo” che individuano come potenziale moltiplicatore dello spazio utilizzabile. La loro spiegazione di questo principio, con i suoi diagrammi esplicativi, spesso genera ironia: l’incrocio di orizzontale e verticale produce il segno di addizione, l’incrocio di due linee oblique genera il segno di moltiplicazione.
Il lavoro di Parent e Virilio sviluppa la “funzione obliqua” in una direzione che, influenzata dalla psicologia della forma, genera continui, fluidi movimenti e spinge il corpo ad adattarsi all’instabilità. Dopo l’ordine orizzontale dell’habitat rurale dell’era agricola e l’ordine verticale dell’habitat urbano nell’era industriale dicono che il prossimo «passo logico (o, piuttosto, topologico) è per noi l’ordine obliquo dell’era post-industriale».
Per raggiungere l’obiettivo ritengono necessario scardinare la nozione della chiusura verticale, le cui pareti sono rese inaccessibili dalla gravità, e definire uno spazio abitabile mediante piani inclinati completamente accessibili aumentando le superfici abitabili medesime. Questa concezione viene anche definita come “circolazione abitabile”.
La ricerca teorica sfocia in alcuni progetti concreti: la chiesa di Sainte Bernadette du Banlay a Nevers (1964-66), lo Shopping Centre di Sens (1970) nel quale i negozi disposti su livelli sempre diversi si affacciano su rampe lunghe 120 metri, il padiglione francese alla Biennale di Venezia nel 1970.
Sempre negli anni 1963-1964 avviene uno spostamento concettuale importante ad opera di uno degli architetti che meno ha costruito, Cedric Price. Con un progetto rimasto sulla carta, il “Fun Palace”, ed uno realizzato e successivamente demolito, l’“Inter-Action Centre”, Price propone come elemento generatore dello spazio architettonico il programma delle attività. La forma dello spazio non è data e non è fissa, ma flessibile e mutevole secondo le esigenze e il variare del programma. L’organizzazione distributiva degli spazi non è basata sulla pianta ma sul diagramma generato dal flusso delle attività. In questo modo Price trova una risposta ad uno dei limiti dello spazio della città moderna: l’astrazione dai processi reali che si sviluppano nella società e la difficoltà di adattamento dei modelli insediativi all’evoluzione di questi. Un ulteriore principio del lavoro e del pensiero dell’architetto inglese è costituito dalla reversibilità dell’organizzazione spaziale artificiale, fino al suo completo annullamento. L’architettura, che anche nei progetti più radicali delle avanguardie è concepita come eterna, secondo Price deve contenere insita nei suoi caratteri costruttivi la possibilità di rimozione, fino alla scomparsa e al ripristino della condizione preesistente. Il caso dell’“Inter-Action Centre”, allestito nel quartiere di Kentish Town a Londra nel 1976 e demolito nel 2003, è la messa in pratica del concetto di reversibilità applicato all’architettura. Va sottolineato il fatto che Price, molto coerentemente, nulla fece per evitare la rimozione della sua creatura, che funzionava benissimo come centro di produzione culturale, formazione e aggregazione sociale per i giovani della comunità e al posto della quale è stato successivamente realizzato un anonimo centro sportivo. L’“Inter-Action Centre” è stato esemplare e seminale anche per la pratica di altri due principi: la sobrietà, espressa nell’adozione di sistemi costruttivi e materiali semplici ed economici, e il riciclo, con il reimpiego di container ed attrezzature nati per la logistica industriale.
La teoria e la prassi di Price appaiono profetiche pertanto anche in relazione alla recente e persistente ideologia della cosiddetta “sostenibilità”. Un’ architettura che si adatta, che recupera, costa poco e arriva ad autoannullarsi costituisce una strategia di organizzazione dello spazio umano pressoché perfetta per raggiungere obiettivi quali la riduzione del “consumo del suolo” o la diminuzione “dei consumi energetici per il riequilibrio del pianeta” che stanno al centro dell’“alta qualità ambientale” (HQE in lingua francese). A proposito delle ricadute sullo spazio costruito l’approccio “sostenibile” spesso tende, anche in modo inconsapevole, e talvolta falsamente ingenuo, a mescolare artificio e natura con risultati, talvolta, grotteschi. Esemplarmente ambiguo in questo senso è il concetto di “grattacielo ecologico” che contiene in sé due obiettivi che parrebbero in contrasto: l’essere l’edificio più alto e, nel contempo, il più eco-compatibile.
Lo spazio della città