
Oggetto del presente studio è l’approfondimento tematico del problema dello spazio così come esso viene definendosi nell’articolato progetto fenomenologico husserliano, con riguardo sia ai suoi aspetti statici e descrittivi che a quelli genetici e costitutivi.
Per poter guadagnare l’accesso alla tematizzazione husserliana del concetto di spazio muoverò dalla definizione del luogo teoretico in cui essa si colloca, luogo definito dalla tensione che lega la nozione di intenzionalità al modo precipuo in cui la fenomenologia intende il rapporto tra immanenza e trascendenza nella costituzione del senso dell’esperienza.
L’analisi del concetto di spazio, infatti, non può essere disgiunta dalla più ampia considerazione di quello che è il tema generale della fenomenologia, ossia la nozione di intenzionalità, la direzione intenzionale del significare e, dunque, l’indagine fenomenologica sul senso intenzionale degli atti esperienziali.
Alla strutturale co-appartenenza trascendenza-immanenza resa visibile dall’emergenza della nozione stessa di intenzionalità allude, del resto, Husserl quando, nel 1907, in L’idea della fenomenologia, introduce, entro un’ampia analisi della trascendenza, l’idea del “doppio senso della trascendenza”.
Avvertita l’urgenza di dover fare i conti con quella enigmaticità della conoscenza che è la sorgente di tutti gli imbarazzi scettici, Husserl non parte dall’assunzione dogmatica circa l’alterità della cosa e accetta, invece, la sfida scettica ad attenersi alla sfera dell’indubitabile, e dunque del fenomeno, ma solo per poterla superare, mostrando come, attraverso i fenomeni, si manifesti e si costituisca un mondo in sé.
Nella nostra vita quotidiana, permanendo in quello che Husserl chiama l’atteggiamento naturale, noi siamo convinti di vivere in un mondo esistente in sé, indipendentemente dai nostri atti soggettivi. Questo realismo ingenuo, che sempre accompagna la nostra percezione quotidiana delle cose, comincia a vacillare quando esercitiamo la riflessione filosofica. Questa, nella sua declinazione scettico-fenomenista, riduce la conoscenza a un vissuto psicologico del soggetto naturale e legittima l’esistenza stessa degli oggetti esterni alla nostra mente solo sulla base di eventi soggettivi: «Dico che la tavola su cui scrivo esiste – scrive Berkeley – cioè la vedo e la tocco; e se fossi fuori dal mio studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio». Come un in sé (un oggetto spaziale, un ente ideale della logica pura o della matematica) possa manifestarsi in atti soggettivi mantenendo la propria alterità senza ridursi a processi psicologici è l’enigma della trascendenza. Come, in altri termini, in atti immanenti soggettivi si possa presentare un mondo trascendente, oggettivo, è ciò che l’analisi costitutiva vuole chiarire.
Husserl ragiona così: la conoscenza, nelle sue molteplici configurazioni, presenta nozioni e contenuti vaghi passibili di dubbio circa l’oggettività, la fondatezza. In questo senso il primo passo della fenomenologia, in quanto riflessione critica sulla conoscenza preliminare a ogni riflessione critica di tipo scientifico, consiste nel produrre necessariamente scepsi, scetticismo.
Ogni conoscenza, naturale o scientifica, viene posta in dubbio e, al posto di tali conoscenze, viene sollevata la domanda tipicamente fenomenologica: come è di principio conoscibile la realtà oggettiva? La scepsi fenomenologica, tuttavia, e a differenza delle posizioni filosofiche fenomeniste, procede da qui e “metodicamente” per dirigersi a un possibile fondamento di assoluta evidenza.
«Ogni vissuto dell’intelletto e ogni vissuto in generale – scrive Husserl – in quanto sia attuato, può essere ridotto all’oggetto di un puro guardare e afferrare, e in questo guardare esso costituisce datità assoluta. Esso è dato come un essente, come un questo-qui, dubitare del cui essere non ha proprio nessun senso».
Che si dia un universo, una “sfera dell’essere” della conoscenza è un “dato assoluto”. È, cioè, assolutamente certo che io percepisco, ragiono, immagino, ricordo nel modo in cui ogni volta lo faccio. Questo vissuto, questo contenuto di coscienza ha una natura intenzionale propria. Vale a dire che in ogni atto di conoscenza (percettiva, immaginativa, rimemorativa…) io “intenziono” qualcosa in un modo peculiare. Ogni atto di coscienza è sempre coscienza di qualche cosa, coscienza intenzionale, tesa verso qualcosa, coscienza che intende altro oltre sé. In questo senso la trascendenza dell’oggetto percepito nel percepire, ricordato nel ricordare ecc., è un carattere essenziale immanente alla coscienza stessa.
La trascendenza investe dunque il fatto fondamentale dell’intenzionalità della coscienza, dei suoi costitutivi vissuti intenzionali: la descrizione dei vissuti della coscienza pone il problema generale della trascendenza, di una trascendenza (immanente) alla coscienza stessa e questo altro non è che il tema dell’intenzionalità. Sotto questo profilo l’analisi husserliana lascia emergere una nozione di trascendenza che è altra da quella materiale (la quale concerne il fatto che in un vissuto intenzionale non è materialmente compresa la cosa intenzionata) e che, di contro, concerne ciò che non è direttamente dato in un vissuto e che, tuttavia, viene inavvertitamente assunto come se lo fosse.
Osservata più da vicino, dunque, questa trascendenza ha un doppio senso. Si può da un lato pensare al «non-esser-materialmente-contenuto dell’oggetto di conoscenza nell’atto di conoscenza» e il contrario di tale trascendenza è una nozione di immanenza per la quale “immanente” significa materialmente contenuto nel vissuto di coscienza. Ma, come si è visto, «c’è ancora un’altra trascendenza: il suo contrario è tutt’altra immanenza, è cioè l’assoluta e chiara datità, la datità diretta in senso assoluto (direkte Selbstgegebenheit). Questo esser-dato, che esclude ogni dubbio sensato, questo semplice e immediato guardare e cogliere l’oggettualità stessa che si intende, e proprio così come essa è, costituisce il concetto pregnante di evidenza, concepita appunto come evidenza immediata».
La fenomenologia, dunque, anziché assumere la trascendenza come un fatto enigmatico e inspiegabile, pone il problema della sua genesi e della sua costituzione, ossia il problema del suo come.
Per questo Husserl nota che «l’idealismo fenomenologico non nega l’esistenza reale del mondo (e innanzitutto della natura) quasi pensando trattarsi di una mera parvenza a cui, anche se inavvertitamente, il pensiero naturale e scientifico positivo soggiaccia. […] Che il mondo esista, che si dia come un universo esistente all’interno dell’esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è perfettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità, che sostiene la vita e le scienze positive, e di chiarirne il fondamento di legittimità». Ed è per questa ragione che Husserl può scrivere, nella Crisi, che «rettamente inteso non esiste dunque un realismo più radicale del nostro, purché questa parola non significhi questo: “io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo, ecc. e di ciò non ho il minimo dubbio”. Ma il grande problema è appunto capire questa “ovvietà”».
Il concetto di spazio nella fenomenologia di Husserl