
1. L’idea di luogo
Il nucleo del vitalismo bergsoniano è custodito nella tesi di dottorato di Bergson, L’idea di luogo in Aristotele: «il luogo aristotelico non esiste prima dei corpi, ma nasce dai corpi, o piuttosto dall’ordine e disposizione dei corpi». Lo spazio topologico, il luogo, sorge dai corpi, che sono i contenitori dei movimenti naturali e il sostrato della distinzione tra movimenti di luogo e cambiamenti qualitativi, tra traslazione e mutamento: «Quanto ad Aristotele, dato che ha distinto i diversi generi del movimento nel modo del fisico piuttosto che in quello del geometra, e ha ritenuto che altro è il colore e il desiderio del movimento che tende verso il basso, altro quello del movimento che va verso l’alto, è stato per ciò stesso portato a rigettare del tutto il nostro spazio omogeneo e a parlare invece del luogo. Ritiene infatti che il movimento sia connesso con il corpo, quasi sbocciando dalla sua natura intima». Come lo spatium deleuziano, il luogo aristotelico-bergsoniano è un sistema di variabili dipendenti, che sfugge alla distinzione fra materia e forma; un «qualcosa di ben determinato», che non «può essere ricondotto alla forma senza mescolarsi immediatamente con la materia, quindi con il corpo stesso».
E tuttavia, a differenza di Deleuze, il cui spatium è radicato nella profondità del trascendentale e presuppone l’architettura kantiana delle quantità intensive illustrata nelle “anticipazioni della percezione” della Critica della ragion pura, Bergson contesta sia il carattere formale ed estensivo della spazialità kantiana sia quello intensivo della percezione dei fenomeni nello spazio. Lo spazio kantiano, quantità estensiva e dimensionalità geometrica, è per Bergson una procedura derivata, un’incrostazione di abitudini di pensiero – divisibilità infinita, omogeneità, quantificabilità metrica del moto – acquisite nel corso dell’interazione con la materia. Il vuoto e l’infinito sono proprietà essenziali ma secondarie del pensiero dei “geometri”: «Dalla nostra distinzione di forma e materia segue anche che il nostro spazio, anche qualora tutto sia pieno in un mondo finito, può tuttavia essere detto sia vuoto sia infinito. Infatti, anche ammettendo che i cambiamenti delle qualità si svolgano tutti in un cerchio finito e che al di fuori di limiti determinati non si possa trovare alcunché di percepibile per i sensi, tuttavia con il pensiero andiamo oltre, e non ci lasciamo rinchiudere in uno spazio, per grande che sia, senza desiderare immediatamente di volarne fuori». Lo spazio kantiano è accettato da Bergson come un supplemento del luogo, un’idealità che attraversa i corpi e le loro parti. Al contempo, esso è ricondotto genealogicamente a esigenze pratiche, che presuppongono la distinzione tra la materia e la forma della conoscenza, e s’innestano sulla realtà fisica dei movimenti e mutamenti qualitativi dei corpi.
In tal modo, Bergson subordina il modo di pensare del geometra a quello del fisico, le strutture trascendentali della sensibilità a una topologia naturalistica. In Bergson, la genesi dello spazio-tempo non risale sino a uno spatium intensivo e trascendentale ma si mantiene in prossimità di corpi finiti inclusi in altri corpi finiti. Aristotele «ha voluto che lo spazio, prematuramente emancipato ad opera di Leucippo e Democrito, fosse ricondotto nei corpi, in modo che allo spazio fosse sostituito il luogo, e a un teatro infinito del movimento un’inclusione di cose finite in cose finite».
Dopo aver neutralizzato la costituzione trascendentale del continuo, Bergson radicalizza il naturalismo aristotelico, la sottomissione dello spazio ai corpi. In Aristotele l’inclusione dei corpi nei luoghi, intesi come «superficie interna della cosa contenente», prosegue sino a porre un limite immobile che svolge la funzione fisica e logica di luogo primo. Bergson si domanda «che ne sarà del luogo, se restituiamo al mondo aristotelico il suo movimento interrotto». La risposta è un costruttivismo topologico, una metafisica del vivente e dei suoi limiti. Pur ricalcando la logica aristotelica, il luogo bergsoniano «è un limite mobile, che segue il corpo, delle cose contenute». Solo a questa condizione, soltanto se il luogo non è un limite immobile, cioè una superficie contenente statica, un automatismo logico-cosmologico che circonda il corpo mobile, bensì uno spazio vivente inviluppato nei corpi in movimento, sarà possibile distinguere nel corpo ciò che è in atto e ciò che è in potenza, e dunque assegnare ai corpi un luogo senza cadere nell’aporia in cui, secondo Bergson, è rimasto intrappolato Aristotele, che è in grado di assegnare un luogo ai corpi soltanto a condizione che essi siano già fuori dal luogo. Se invece ci atteniamo ad Aristotele e concepiamo il luogo come un limite immobile, come Deleuze nella sua ontologia dello spatium intensivo e dei cristalli di tempo, incorriamo nel seguente paradosso:
«per tutto il tempo in cui la cosa contenuta rimane immobile, non c’è nessuna ragione per cui si dica che il contenente e il contenuto sono separati: potrebbe darsi infatti che queste cose, che sembrano due, risultino invece unite in un corpo unico e solidale, che allora ciò che chiamiamo contenuto occupi il luogo non in atto, ma soltanto in potenza, dato che sono continue le cose che credevamo contigue. Il luogo in atto, come si è detto, sarà rivendicato dalla cosa contenuta allorché, separata, si muoverà: è dunque il moto a sciogliere l’unione dei corpi e la nostra incertezza. Ciò posto, ecco darsi una conseguenza sorpredendente e quasi incredibile: un corpo è in possesso di un luogo a condizione di essere fuori dal luogo. Infatti la cosa contenuta avrà nella superficie che la tocca e contiene un luogo primariamente allorché allontanandosi romperà l’unione».
Topologie bergsoniane