
Nelle riflessioni che seguono interpreto la critica del principio di non contraddizione – di cui seguo le tracce specialmente in G. Priest e N. Vasil’ev – come un modo per fare spazio. È impossibile, per la logica classica, che una superficie blu possa essere anche rossa, e quindi non-blu, allo stesso tempo e sotto lo stesso rispetto. Ciò nonostante, è proprio questo che propongono differenti forme di logiche transconsistenti. Di solito, la logica non ha la forza per diventare filosofia. Non si domanda come dovrebbe essere fatto l’essere, perché il principio di non contraddizione possa – per lo meno in alcuni casi – venire sospeso, oppure perché esso possa mantenere validità come principio locale e subordinato. Eppure, è proprio il nesso di principio di non contraddizione e ontologia della sostanza che connota la metafisica di Aristotele. L’ipotesi che suggerisco è che differenti forme di logica immaginaria possano trovare un ancoraggio ontologico in una metafisica dell’aggiunta. L’essere che può essere solo incontraddittorio, per un verso ha sempre infinito spazio a disposizione (per ogni dicotomia – come blu e non-blu – possono sempre nascerne di nuove, come blu-elettrico e blu-non elettrico, blu-elettrico della marca X e blu-elettrico non della marca X…), per l’altro riempie sempre perfettamente l’intero spazio a disposizione (qualcosa o è blu, o non è blu…). L’essere che può anche essere contraddittorio, si trova invece a fronteggiare rilevanti problemi di spazio. Come fa qualcosa a essere blu e non blu nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto? Appare subito evidente che uno dei due predicati è di troppo: com’è possibile farcelo stare? Mentre di solito l’essere viene esentato da simili problemi di spazio, che invece toccano la politica e l’esistenza di tutti noi, una metafisica dell’aggiunta non concede questa esenzione. Per tale metafisica, l’essere per un verso ha poco o nessuno spazio a disposizione (come una risorsa in stato di saturazione), per l’altro mette (crea) esso stesso lo spazio, in cui le differenti dicotomie tornano poi anche a essere possibili. Per fare questo, per mettere uno spazio che non c’è, l’essere dev’essere appunto in stato di aggiunta. Se, però, l’essere è più che se stesso – e dunque essere* –, una struttura di duplicità – che renda compatibili gli incompatibili – è la natura delle cose, la Cosa stessa. L’essere si spazia, fa spazio al proprio interno restando se stesso, in una sorta di fuga sul posto, o di metamorfosi nell’immobilità. L’ordine diurno, che rende gli incompatibili appunto incompatibili, separa la notte della sofistica, in basso, in cui tutto è il contrario di tutto, dalla notte del Bene, in alto, in cui lo spazio logico (e reale) che manca si può sempre inventare. Il principio di non contraddizione serve quindi a presidiare filosoficamente la via del giorno contro la via della notte. Ma le notti sono due – una inferiore e una superiore, una infausta e una fausta – e la filosofia non esaurisce la propria vocazione nelle ore diurne. Alla notte del dubbio fa seguito il giorno del cogito, e a questo la notte di Dio. La quale si può descrivere come la coincidentia oppositorum, la cui grammatica non può essere spiegata con la contraddizione, appunto perché la fonda.
1. Dialeteismo
La questione del “due” ha trovato recentemente una declinazione logica nel dialeteismo (dottrina della doppia verità) di Graham Priest. Secondo la Stanford Encyclopedia of Philosophy:
«Una dialetheia è un enunciato, A, tale che sia esso sia la sua negazione, ¬A, sono veri […]. Assumendo il punto di vista, in linea di massima non controverso, per cui la falsità non è altro che la verità della negazione, si può ugualmente sostenere che una dialetheia è un enunciato sia vero sia falso. Il dialeteismo è la teoria secondo cui vi sono dialetheie. Si può definire una contraddizione come una coppia di enunciati uno dei quali è la negazione dell’altro, o come la congiunzione di enunciati siffatti. Perciò, il dialeteismo si risolve nella tesi che vi siano contraddizioni vere. Come tale, il dialeteismo si oppone alla cosiddetta Legge di non-contraddizione (LNC) (talora anche chiamata Legge di Contraddizione). La legge può essere ed è stata espressa in modi differenti, ma il più semplice e perspicuo per i nostri scopi è probabilmente il seguente: per ogni A, è impossibile che A e ¬A siano veri entrambi».
La posizione di Priest trova un antecedente immediato nella logica dialettica, di ascendenza hegeliana, o in quella famiglia di logiche che rifiutano il principio dello Pseudo-Scoto: ex falso, quodlibet (A, ¬A → B). Che ci sia qualche contraddizione vera, per la logica dialettica, non trivializza il sistema, non implica cioè che, data una contraddizione, si possa inferirne qualsiasi cosa: «Una formula arbitraria B non è una conseguenza logica» di una contraddizione. Non è legittimo, dal punto di vista dialettico, trasformare «la contraddittorietà semplice in assoluta». A ciò si collegano: i) una diversa, più sofisticata interpretazione del ruolo della negazione: «Infatti non segue dal fatto che ¬ B è vero che B è falso»; ii) la violazione del «principio di esclusione»; iii) l’idea che la logica proposizionale classica sia «un caso particolare della logica proposizionale dialettica».
In questa scia si inserisce la logica del paradosso di Priest, secondo cui – come osserva Beall – l’intersezione di verità e falsità, diversamente che nella logica classica, non è vuota, senza che da ciò consegua un traffico esplosivo. Anche nel caso di Priest, come già in quello della logica dialettica, è però importante notare che «un dialeteista non ha ragioni per rigettare la non contraddizione come assunzione di base, o come importante valore teorico in generale. Che alcune contraddizioni siano vere, non implica che la maggior parte delle contraddizioni sia vera».
Alla domanda «“che c’è di sbagliato nel credere in alcune contraddizioni”? (“what is wrong with believing some contradictions?”)», Priest – enfatizzando il fatto che si tratta di credere in alcune contraddizioni – risponde quindi: «Forse niente (maybe nothing)». Priest contesta «l’assunzione, solitamente impacchettata nei manuali di logica senza alcun commento, che verità e falsità in un’interpretazione siano esclusive ed esaustive (exclusive and exhaustive)».
Lo spazio logico della contraddizione