
Il nostro approccio ordinario al mondo – o meglio, a quella sua immagine precostituita che definirei “disponibilità-mondo” – è condizionato da una meta-raffigurazione che lo intende alla stregua di una istituzione magica, «capace, non si sa come, di elargire beni di consumo a getto continuo». In un mondo dove tutto è sempre disponibile, scriveva Ernst Bloch, sembra sia sufficiente «allungare le mani sulle vetrine del momento» per possedere ogni bene e accedere al paradiso in terra. Il “pane terreno” è sempre alla portata per chiunque sia in possesso del pin magico o di una scintillante carta di credito – reinvenzioni della bacchetta incantata che esaudisce ogni desiderio, del gesto rituale che spalanca le porte di un Eden piuttosto terreno: what else? In effetti, «ci deve essere una ragione se nella nostra lingua basta spostare una erre e CartaSì diventa catarsi»: la purificazione gioiosa si acquista solo attraverso le merci, mediante l’ultimo ritrovato delle indulgenze prêt-à-porter offerte a gran copia nelle vetrine degli store di tutto il mondo. Con queste concrezioni del desiderio vorremmo purificare la nostra anima, arretrata e obsoleta, immergendola nel nuovo Lete mediatico della spettacolarizzazione sociale e consumistica – pace e godimento sine intermissione dell’anima di ogni consumatore operoso. L’utopia della plenitudo è già in mezzo a noi, perfettamente realizzata, amalgamata con l’esistenza prosaica dello status quo: il mercato, in particolare, presenta se stesso alla stregua di una nuova Canaan «dove, invece del latte e del miele, scorrono le onde del neon sul ketchup e sulla plastica».
Fortuna e azzardo ai tempi del capitalismo