
1. Mentre nel 1580 si reca a Roma per far esaminare i primi due libri degli Essais ai rappresentanti della censura pontificia, Montaigne forse neppure immagina che uno dei pochi punti messi in discussione riguarderà una questione per lui tutto sommato secondaria, come l’uso del termine “fortuna”. Ai teologi vaticani la fortuna appare infatti una nozione sospetta e vagamente sediziosa perché nega il finalismo intelligente e preordinato della Provvidenza divina, sostituendolo col finalismo cieco e ateo della casualità, una sorta di necessità imprevedibile e capricciosa. L’episodio di Montaigne illustra in modo efficace come la nozione di fortuna – che implica, come aveva visto bene Aristotele nella Fisica, una soggettivizzazione del caso che si piega al bene e al male della vicenda umana – appartenga a una costellazione concettuale, condivisa con il caso appunto, la necessità e la Provvidenza. Una costellazione arricchita dall’analisi di Hume che, in An Enquiry Concerning Human Understanding, introduce la probabilità e la sua modulata incertezza – come quando si gettano i dadi alla roulette e non si è in grado di fare immediatamente una previsione sensata – a spiegare quella che noi definiamo in modo neutro casualità. Naturalmente, il teorema di Bayes offrirà nel 1763 una formula per calcolare la probabilità attribuita a un evento quando aumenta il numero delle informazioni in nostro possesso, correggendo in crescita l’efficacia della nostra previsione. Ma resta il fatto che la probabilità, cui caso e fortuna su versanti differenti si accompagnano, si mostra pur sempre quale gestione oculata e razionale della nostra ignoranza sulle cause effettuali. Insomma, affrontiamo le ampie distese, esaminabili tuttavia, dell’indeterminazione.
Il letto su cui riposa la fortuna è dunque, come abbiamo brevemente osservato, ampio e condiviso, per non dire equivoco, e lascia certamente spazio anche a ciò che gli antichi denominavano “sorte”, per indicare l’intervento inesplicabile e nascosto, a volte favorevole a volte ostile, degli dei nelle vicende umane. Il «consiglio di Zeus si compiva», dice Omero nell’Iliade. Tecmessa, nell’Aiace, chiede agli amici di proteggerla dalla «sorte necessaria». Ecuba, nell’Iliade ancora, lamenta il rapimento e la vendita come schiavi da parte di Achille, in seguito alla guerra, di alcuni dei suoi figli e ci fa intendere come per quel mondo la schiavitù rappresentasse il paradigma della cattiva sorte. Curiosamente, ma forse non troppo per via della resilienza delle parole, il termine “sorte” – a suggerire le alterne fortune dell’esistenza – è sopravvissuto nel dibattito etico-politico contemporaneo, e anzi ricopre un ruolo fondamentale nella distinzione, presentata dalla filosofia del diritto di Ronald Dworkin, tra “sorte bruta” e “sorte opzionale”.
Fortuna, caso e giustizia distributiva