
Per una parte larghissima del Rinascimento europeo, Petrarca fu il teorico di Fortuna: accanto alle rime dei Rerum vulgarium fragmenta, il suo testo più copiato, illustrato e stampato fu per un paio di secoli il De remediis utriusque fortune, che finì per essere considerato «patrimonio di uso comune», responsabile della formazione di predicatori ed eruditi, letto a lungo in tutta Europa come speculum principis. Nei due libri di cui si compone, l’opera disegna una mappa vastissima dell’azione di Fortuna sull’uomo, mostrando gli effetti delle sue due scherane, prosperitas e adversitas, a cui il personaggio Ratio esorta a reagire: non fidandosi quando Fortuna dona, non curandosene quando toglie.
Il De remediis ha una struttura apparentemente semplice, ma che in realtà pone molti interrogativi per la spiccata differenza tra i personaggi in dialogo: la mobilità di Ratio si oppone alla fissità della posizione delle passioni con cui ragiona e argomenta. Se Ratio trova argomenti sempre rinnovati, e molteplici, per combattere gli eccessi di fiducia di Gaudium e Spes, o corroborare con soffi di lucidità lo sconforto di Dolor e Metus, tentando di «decostruire con pazienza l’inessenziale armatura delle circostanze», nell’intento di ricondurre l’io al suo nucleo di verità, da parte loro le passioni non si lasciano smuovere facilmente, restano chiuse nelle loro ossessioni, colpite come sono dalla sofferenza tangibile, inscritta sulla pelle e nel corpo, o cullate dalle prove altrettanto tangibili dei beni accumulati, degli agi copiosi a loro disposizione. Pensare che la buona fortuna possa non durare in eterno non è facile: occorre guardare oltre la scorza delle cose che ci circondano, oltre gli affetti che ci lusingano, proiettandosi dunque nel futuro, visualizzando la loro possibile degenerazione e morte. E non è facile nemmeno pensare a un “rimedio” per la cattiva sorte, quando Fortuna non si limita a sottrarre beni recuperabili, come il denaro o una moglie, ma distrugge le città con il terremoto, o sottrae definitivamente gli esseri amati conducendoli a morte.
L’opera di Ratio consiste, essenzialmente, nella riflessione sull’inessenzialità di tali beni, e dunque sulla fragilità del potere di chi li dona all’uomo. La fine della Prefazione al secondo libro del De remediis è chiarissima nell’esprimere una concezione di Fortuna che potrebbe essere considerata come distintiva della posizione di Petrarca: rispetto alla lis di cui ha parlato tutta la prefazione, «la lotta e il movimento che travagliano il mondo e ne mutano incessantemente gli equilibri», secondo il detto eracliteo «Omnia secundum litem fieri» («tutte le cose che avvengono sono il risultato di una lotta»), Fortuna è un puro nome, una convenzione. Leggendo quest’opera, i dotti non si lasceranno turbare «vulgari cognomine». Basterà riferirsi al Commento a Matteo di san Girolamo, in cui la posizione cristiana è lapidariamente espressa in una sentenza – «Nec fatum nec fortuna» – che Petrarca ripeterà nella Senile VIII 3, dopo aver espresso la medesima opposizione al sentire comune, la «vulgaris opinio», nella Familiare XX 8 ad Agapito Colonna il Giovane, probabilmente del 1359 (§ 14: «vere autem nichil esse per se ipsam magnis auctoribus fidem habui» [«ma io, con l’autorità di grandi uomini, so che essa è un nulla»]), e nella Familiare XXII 13 a Pierre Bersuire, del settembre 1361 (§ 7: «nil omnino aliud quam nudum et inane nomen est Fortuna» [«la fortuna altro non è che un nome nudo e vano»]).
L’esperienza delle cose: la riflessione di Petrarca sul potere di Fortuna