
Il Roman de la Rose è stato definito dai critici un “mostro”, un “testo mostruoso”: per gli oltre ventimila versi di lunghezza; per la doppia autorialità, distante nel tempo e nello stile: Guillaume de Lorris, che inizia a scrivere attorno al 1230 ma s’interrompe dopo i primi quattromila versi, e Jean de Meun, che completa l’opera una quarantina di anni più tardi; per il carattere enciclopedico ed eterogeneo dei contenuti, che sfugge a qualunque definizione di genere letterario, oggi come nel Medioevo; per certi aspetti della sua ispirazione, non così pacifici per la morale dell’epoca: sul senso del libro polemizzano, già ad inizio Quattrocento, in Francia, gli umanisti Jean de Montreuil e Gontier Col, difensori del carattere allegorico-edificante anche delle allegorie più licenziose, il teologo Jean Gerson, severo censore del messaggio etico ingannevole affidato a metafore troppo esplicite, e la scrittrice Christine de Pizan, strenua avversaria dell’ideologia fortemente misogina della seconda parte.
Elogio nascosto della virtù o invito celato a trasgredirla, il Roman de la Rose presenta al lettore percorsi esegetici multipli, a seconda della prospettiva critica che si scelga di adottare. L’ibridismo insito in questa summa antico-francese del sapere allegorico sollecita qui l’approfondimento di un’invenzione figurativa e figurale onnipresente nella cultura occidentale e che nel Roman de la Rose, specchio emblematico della mentalità medievale, trova particolare rilievo e varietà di rappresentazioni: la Fortuna.
La Fortuna dalle tante, ambigue facce compare in entrambe le sezioni dell’opera, ma è dagli oltre duemila versi ad essa consacrati nella continuazione di Jean de Meun (vv. 4831-6938) che emerge tutta la complessità di secoli e secoli di influssi provenienti dagli àmbiti più disparati, popolari e colti, che hanno agito sulla creazione e trasformazione di un concetto, contaminandone le caratteristiche e – benché in misura minore – le funzioni. Il poeta mediolatino Arrigo da Settimello, che a Fortuna dedica una Elegia databile all’ultimo decennio del Millecento, mostra bene l’intreccio di motivi pagani e cristiani, speculativi e illustrativi, paragonando la molto fisica personificazione con la quale dialoga a Proteo, metamorfica divinità marina della mitologia greca, ma al contempo facendone un’emanazione del demonio: «Protheus esne? Vagusne movet tua viscera ventus,/vel tua diabolus viscera crebra movet?».
«Vous faites Fortune Deesse…». I volti e i risvolti di Fortuna nel Roman de la Rose