
VALUTAZIONE? MA NON COSÌ !
EDITORIALE
La società dell’informazione e della conoscenza è anche una società della valutazione. I genitori dei ragazzi in età scolare hanno, per esempio, diritto a sapere in base a quali parametri i professori assegnano un voto. Nascono così un po’ ovunque griglie di valutazione. Un liceo torinese prevede da 7 a 12 items per giustificare ciascun voto di condotta da 10 a 5. Consideriamo il primo item: per meritarsi un 10, lo studente dovrà mostrare, tra le altre cose, «pieno e consapevole rispetto degli altri e delle istituzioni scolastiche»; se invece dovesse mostrare solo «pieno rispetto degli altri e delle istituzioni scolastiche», senza consapevolezza, e se gli altri indicatori andassero di pari passo, meriterebbe il 9. Ci vuole, immagino, una raffinata ermeneutica per distinguere in concreto la fattispecie del pieno rispetto da quella del pieno e consapevole rispetto. La griglia quindi non è immediatamente applicabile. Qualcuno potrebbe anche obiettare che non sempre il rispetto pieno e consapevole è superiore al pieno rispetto. Immaginiamo un santo (o uno psicotico), ebbro di amore per gli altri e per tutte le forme di vita. Forse il suo grado di consapevolezza – perlomeno nel senso della lucidità razionale – potrebbe essere insufficiente. Magari ha tanto rispetto per le istituzioni dello Stato che piange di commozione ogni volta che vede il cancello della scuola, mentre il suo più consapevole compagno lo oltrepassa con distrazione, già pensando alla versione di latino che lo aspetta, anche se – ovviamente – non si sognerebbe mai di imbrattarlo o di prenderlo a calci. Siamo sicuri di voler dare il 9 al folle e il 10 al consapevole? Forse bisognerebbe allora discutere, complicare la griglia di valutazione, fare differenze ulteriori tra il pieno rispetto consapevole, non consapevole, infra-consapevole, sovra-consapevole (è difficile definire questi concetti, occorrerebbe molto tempo, ed è probabile che non si giungerebbe comunque a una soluzione condivisa). Oppure – visto che comunque l’esercizio di ermeneutica è inevitabile, griglia o non griglia – si potrebbe essere tentati di buttare a mare la griglia, e di affidarsi a concetti maggiormente sintetici, come quelli più tradizionali di comportamento buono o cattivo (e intermedi). Che se poi qualcuno chiedesse (con protervia?) che cosa vuol dire comportarsi bene, si potrebbe sempre rispondere elencando da 7 a 12 items (tra i quali un «pieno e consapevole rispetto degli altri e delle istituzioni scolastiche» non potrebbe mancare).
E tuttavia, alcune questioni si pongono qui: 1) se vi sia appunto un limite all’interpretazione, se cioè svolgendo la sintesi (comportarsi bene) in un’analisi di 7 o 12 items, abbiamo davvero fatto chiarezza, per noi e per l’utenza, o se non abbiamo piuttosto prodotto nuova ambiguità (che costituisce a sua volta un motivo di conflittualità), che richiederebbe di essere disambiguata; 2) se in generale non torniamo ad avere piuttosto bisogno di sintesi, che non (solo) di analisi ed elencazioni; 3) se l’opzione epistemica per un tendenziale azzeramento dei margini interpretativi, figlia della cultura analitica, non solo rischi di non mantenere che in parte le proprie promesse di chiarezza e distinzione, ma possa addirittura rivelarsi controproducente: davvero vogliamo educare le nuove generazioni (e i genitori, i docenti, il personale tecnico-amministrativo…) a non sapere concepire il senso complessivo se non come una somma o una mera computazione di significati parziali?; 4) se educare al controllo passo per passo dei processi, nella (forse vana) speranza di eliminare approssimazione ed arbitrio, non costituisca un’ingegnerizzazione dell’atto educativo, che rischia di non trascurarne alcunché, eccetto l’essenza.
Questo numero intende discutere l’impatto delle tecniche e procedure di valutazione sulla produzione del sapere e della realtà sociale, nonché sulla definizione stessa di ciò che sono il sapere e la realtà in ambiti differenti (medicina, economia, management, psicologia, sociologia, filosofia, politiche pubbliche e non…).
È indubbio che tali procedure ingegnerizzate abbiano dato luogo a clamorosi infortuni, come la famosa A 1 con outlook positivo elargita da Moody’s a Lehman Brothers nel marzo del 2008 (https://www.moodys.com/research/Moodys-affirms-Lehmans-A1-rating-outlook-now-stable–PR_151071). Gli stessi sistemi di VQR (valutazione della qualità della ricerca) sono andati incontro a vibrate proteste, che non sembrano derivare dall’indisponibilità di professori e ricercatori universitari a essere valutati (si veda ad esempio, in Italia, l’appello per la filosofia di R. Esposito, A. Fabris, G. Reale: http://www.lascuola.it/it/home/editrice_detail/un-appello-per-la-filosofia/tutte_le_news/).
La valutazione c’è sempre stata. L’esame di coscienza, per esempio, era una forma di vita esaminata, che si riteneva fosse indispensabile per acquisire l’abito della virtù. La catena delle riflessioni, ponendo ogni volta a oggetto lo stadio di consapevolezza appena raggiunto, costituisce, nell’idealismo trascendentale, il motore dialettico del progresso. In entrambi questi esempi la valutazione non serve a fotografare l’esistente ma a sollecitarlo verso un miglioramento che ha che fare con il perseguimento di una maggiore somiglianza con l’essenza e con la verità di ciò che viene esaminato. Sia nell’esame di coscienza sia nella riflessione trascendentale, però, possiamo riscontrare una tendenza egologica della valutazione, il rischio di mancare l’obiettivo del rinnovamento e di accontentarsi dell’esame, della fotografia: un eccesso di analisi e di riflessione può addirittura nuocere alla produzione di realtà e di novità.
La questione che si pone è quindi in primo luogo quale sia il rapporto tra la riflessione e la novità. In secondo luogo, si pone il problema di come le tecniche di valutazione condizionino le concrete modalità di produzione del sapere. “Valutare” non significa semplicemente fotografare quello che c’è, ma – in molti casi – costringe a una mutazione radicale dei metodi e degli oggetti stessi della ricerca. Il valutatore diventa quindi produttore, le tecniche di valutazione tecniche di produzione del sapere.
Se le agenzie di valutazione e rating sono agenzie di produzione della realtà, che non si limitano a selezionare i prodotti migliori disponibili sul mercato, ma impongono una linea di prodotti (una linea di politica economica, una linea politica tout court…) a esclusione di altre, la valutazione intrattiene un rapporto critico con la libertà e con la democrazia.
Una griglia di valutazione unilaterale può costituire un greve apparato categoriale, gettato sulla realtà per coartarla e per normalizzarla, impedendo anche solo che si affacci quel resto di trascendenza, che pure nei differenti ambiti è quanto apprezziamo di più: il genio nell’arte, l’intuizione in economia, la visione in politica…
Nell’ambito specifico delle humanities e delle discipline sociali, si tratta di costruire una matrice gnoseologica della produzione & valutazione, di cui ancora si avverte la mancanza. Essa dovrebbe tenere conto di variabili specifiche, come – ad esempio – la potenza di un’idea. Come valutarla? In tale matrice, le ragioni dell’analisi non dovrebbero – crediamo – sopravanzare quelle della sintesi. Sebbene i valutatori (come molti filosofi) si concepiscano solo come analisti, andrebbe sempre ricordato che – come diceva Goethe – “la prova di una analisi ben riuscita sta nella sintesi”. E forse, proprio questa è la più immediata e naturale definizione della filosofia e delle scienze che vi si connettono: sapere sintetico.
Sulla base di tali considerazioni, si pongono (almeno) le seguenti domande:
1) in che modo, nei differenti ambiti, la valutazione condiziona la produzione?
2) in che modo la valutazione determina a priori ciò che deve (e in base a quale concezione di “dovere”) essere visto/riconosciuto, e per conseguenza potenziato?
3) qual è il rapporto tra analisi e sintesi nei processi di valutazione? Che rapporto c’è tra valutazione analitica e (iper-)specialismo? Possiamo andare verso nuove sintesi del sapere? Come?
4) c’è un nesso, e se sì quale, tra la pervasività degli attuali metodi di valutazione, l’aggressività delle nuove oligarchie (finanziarie, burocratiche, del sapere), l’arretramento della democrazia?
5) come è possibile valutare la qualità? Che cosa s’intende oggi, e che cosa si dovrebbe intendere per “impatto” di un programma di ricerca?
6) quale antropologia è sottesa ai processi dominanti di valutazione? In che modo questi lasciano spazio a considerazioni non meramente meccanicistiche o riduzionistiche dell’essere umano?
7) può darsi un conflitto tra la valutazione e la realtà da valutare, più o meno a quel modo in cui un eccesso di riflessione può risultare nocivo alla vita?
8) sono possibili tecniche alternative di valutazione in economia, in politica e nelle humanities? Se sì, quali?
La sfida non consiste tanto nel sottrarsi alla valutazione, ma nel criticarla e trasformarla. La qual cosa non può essere demandata solo ai tecnici della meta-valutazione, ma richiede un ampio coinvolgimento comunitario di tutti coloro che avrebbero titolo a prendere la parola, specialmente di coloro che di solito sono tenuti ai margini dei processi decisionali.
Enrico Guglielminetti
Angelo Miglietta
Paolo Moderato
Numero 13 – Valutazione