
Le discipline manageriali si sono lungamente distinte da quelle economiche. Pur mutuando numerosi concetti sviluppati dalla teoria economica, esse hanno sempre svolto un ruolo di rilievo nella definizione di modelli utili per coloro che sono chiamati a gestire le organizzazioni. Anche sul piano epistemologico, tali differenze di finalità euristica hanno determinato per le discipline economiche importanti distinzioni che con un’accettabile approssimazione potrebbero caratterizzarsi come un orientamento alla modellizzazione quantitativa tipico della teoria economica ricorrendo all’uso dell’econometria (anche detta economia politica), mentre nelle scienze manageriali ha prevalso l’attenzione alle fattispecie, e anche la modellizzazione – peraltro ben presente – si fonda su categorie logico-qualitative piuttosto che quantitative. Per dirla con Vicari, «agli albori le discipline manageriali erano di sicuro legate alle pratiche manageriali. Il motivo per cui sono nate le business schools [...] e le università di Economia [...] va cercato nella necessità di diffondere le migliori pratiche manageriali, nate nelle imprese di maggiore dimensione».
Questa distinzione non sembra oggi – e personalmente me ne dolgo – ancora proponibile. Si è assistito, a livello internazionale, a una rapidissima omologazione degli studi manageriali alla metodologia in voga, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, fra gli economisti. Sempre Vicari osserva che «proprio la nascita delle discipline manageriali, dettata da necessità operative, ha prodotto nei professori (di management, osservazione mia) un senso di inferiorità rispetto agli scienziati alle prese con discipline dotate di uno statuto di rigore metodologico costruito in decenni e talvolta secoli [...]. Dagli anni settanta e ottanta del secolo scorso [...] il desiderio di una posizione di più elevato prestigio all’interno degli ambienti accademici ha condotto i ricercatori, soprattutto statunitensi, a richiedere un maggiore rigore nella ricerca sul management. E come spesso accade quando è necessario recuperare da una posizione di svantaggio, la spasmodica ricerca di legittimazione ha condotto gli studi di management a diventare sempre meno rilevanti per il mondo delle imprese».
Il nostro Paese, con poche eccezioni, è rimasto sostanzialmente al margine di questo fenomeno fino alla fine degli anni ’80, principalmente a causa dell’isolamento nazionale. Un isolamento dorato, grazie ai ricchi proventi professionali allora conseguibili e al successo degli studi di economia aziendale presso studenti e imprese. Tutto ciò è stato aggravato dalla modestia del background culturale di alcuni professori di management del nostro Paese, tipico in quegli anni. Essi provenivano dalla laurea in Economia e Commercio, una delle poche – almeno fino alla riforma degli esami di maturità del 1968 – alle quali era possibile accedere anche dopo avere conseguito solo un diploma di scuola media superiore di tipo tecnico, senza dunque possedere basi culturali solide. Tali basi culturali sono conseguibili solo attraverso lo studio delle cosiddette Humanities, in particolare le letterature classiche e la filosofia. Questi accademici avevano dunque una formazione che era veramente l’opposto di quanto aveva immaginato la riforma Gentile di inizio secolo scorso per formare le classi dirigenti del nostro Paese.
Gli economisti italiani, forse perché non considerati dalle organizzazioni economiche italiane del tempo, invece, avviarono ben presto un percorso di apertura al contesto internazionale che li ha portati in larga misura a essere omologati già dall’inizio degli anni ’80 al mainstream dominante, e perciò molto più forti nel sempre esistito confronto con gli studiosi di management. In altre parole, l’isolamento degli aziendalisti italiani dal contesto internazionale, i loro gravi limiti culturali e una loro certa distrazione dall’attività scientifica e accademica dovuta a una troppo abbondante attività professionale li hanno resi colpevolmente indifesi davanti al proprio competitore naturale nella ripartizione delle risorse finanziarie (ovvero fondi di ricerca e posti di ruolo nelle università) e nel contempo spiazzati rispetto ai criteri di valutazione della ricerca in ambito economico-manageriale fissati dall’Anvur, prontamente e astutamente occupata proprio dai portatori di questo pensiero ritenuto dominante. Che è stato nobilitato, in particolare, dal fatto di essere internazionale, e perciò a priori superiore rispetto a qualsiasi altro pensiero. Consci di questa rivoluzione, alcuni studiosi di management, che per primi si erano aperti alla cultura internazionale, hanno cavalcato l’onda e adottato acriticamente le nuove metodologie di valutazione della ricerca, per cercare di acquisire posizioni più forti nel quadro delle proprie discipline specifiche, proprio in quella prospettiva della sudditanza psicologica ricordata prima da Vicari. Il processo è stato persino feroce nelle proprie manifestazioni, perché rapido, non costruito e non condiviso, ma semplicemente imposto sulla base della presunta e indiscutibile superiorità dell’approccio internazionale e della contiguità con gli economisti. Essi possono finalmente ristabilire la loro superiorità grazie a questo autodafé dei competitori aziendalisti, che odiosamente hanno sempre i corsi di laurea più frequentati dagli studenti.
La valutazione della qualità della ricerca nelle discipline manageriali: buoni propositi, cattive pratiche, urgenti cambiamenti