
Vediamo l’accezione di festa nelle due forme presenti in tedesco e prendiamo lo spunto da «[…] ist es die Feier schon/vor dem Feste?». Nell’uso corrente i due termini risultano abbastanza spesso intercambiabili, come sinonimi; ma a una più stretta considerazione si deve rilevare almeno una distinzione: Fest è usuale in qualunque contesto, anche il più semplice; per esempio come festa di compleanno o di altra privata e limitata circostanza. Feier (dal latino feria) suona più solenne, indica spesso una celebrazione: patriottica, storica, religiosa. Non sarebbe appropriato dire Faschingsfeier per una festa di carnevale. La suddetta distinzione è rilevabile nella frase citata, che sta nella terza strofa dell’ode asclepiadea di Hölderlin An die Deutschen, ben nota anche perché vi ricorre l’accusa ai tedeschi, poi subito ritrattata, di essere thatenarm und gedankenvoll, poveri di azione e ricchi di pensiero. E va tenuto presente che il testo è ascrivibile attorno all’anno 1800, in piena epopea francese sotto la figura dominante di Napoleone. Nell’ode suddetta Feier indica il raccoglimento in cui il popolo, prima di darsi al festeggiamento, deve concentrarsi nella solenne e quasi paventata attesa del dio che – si deve supporre – sarà finalmente il dio dell’azione. Feier, preso in sé, ricorre soltanto due altre volte, nel giovanile Lied der Freundschaft (1790). Ma lo ritroviamo poi sovente nei composti, come Feiergesang o Feiertag. E uno di questi ci dà lo spunto per trattare il tema della “festa” scelto per la presente miscellanea.
Mi sia concesso un remoto ricordo personale. Un bel mattino dell’agosto 1954 ero nell’Auditorium Maximum dell’Università di Tübingen in attesa di ascoltare l’annunciata conferenza di Friedrich Beißner sull’opera poetica di Matthias Claudius. Ma, salito in cattedra, Beißner annunciò che avrebbe invece dato lettura di un grandioso e compiuto inno di Friedrich Hölderlin fortunosamente venuto alla luce di recente, in manoscritto olografo e con il titolo Friedensfeier. È facile immaginare l’emozione del folto pubblico. Uscendo dall’Auditorium m’imbattei nell’amico Alfred Kelletat, a quel tempo assistente di Beißner. Richiesto della mia impressione, gli dissi che, almeno a giudicare dall’attacco, l’inno mi sembrava una ripresa e un ampliamento in chiaro dell’incompiuta ode Buonaparte e del frammento innico Dem Allbekannten. Poco dopo Kelletat mi scrisse che anche Karl Kerényi e Beda Allemann avevano riconosciuto in Napoleone il Principe della Festa evocato nella seconda strofa.
Tale attribuzione non fu generalmente condivisa, affatto. Il primo commentatore, il Beißner appunto, vide nel Fürst des Festes “lo spirito del nostro popolo” o, più in generale, “lo Spirito che animerà il nuovo mondo della Pace, dell’Amore e dell’animo comune e abiterà il cuore degli uomini”. Ma si affacciarono diverse altre soluzioni, anche paradossali, per non dire cervellotiche, e diedero luogo allora, come si ricorderà, a discussioni furibonde. Per tagliar la testa al toro, Peter Szondi sostenne con insuperabile arguzia che, sì, ogni chiave poteva forse essere quella buona, ma la discussione era inutile perché in quel testo manca la serratura. Invece la serratura c’è. E come ogni buona serratura è sulla porta. È la prima strofa.
Per l’ultima volta, “Friedensfeier”