
Che la filosofia sia un’attività “festiva”, può essere anche ritenuta un’idea profondamente radicata nella tradizione del pensiero filosofico. Ma l’alone che circonda questo tema negli scritti di Perone – l’«accento acuto» che vi risuona – è per molti aspetti nuovo e capace di suggerire, pur nel quadro più ampio di un movimento ermeneutico che ha ripensato a fondo il compito della filosofia a partire dalla finitezza, riconfigurazioni inedite di parole fondamentali della tradizione. In particolare è in questo caso il legame peculiare della festività con il tempo a intercettare la delineazione più “classica” della theoria e a provocarne un sommovimento profondo. La filosofia è determinata infatti da Perone come un’attività che è immersa nella temporalità e che tuttavia fa resistenza al passare del tempo e ritarda il venir meno delle cose, in quanto riconverte il pensiero a una forma dilatata di presente in cui convivono il “da dove” e il “verso dove”. L’esercizio del filosofare guadagna in questo modo, non senza dilacerazioni interne, un’apertura radicale di senso, perché «fa nascere al pensiero un esistente che antecede il pensiero», ovvero perché, come «ermeneutica nell’inframmezzo», fa spazio per un verso, nella propria finitezza e provvisorietà, nella propria temporalità, all’inconcussa presenza delle cose che sono, mentre riscopre per altro verso la propria più autentica vocazione, quella di produrre, di esporre al proprio interno il riferimento al fondamento. Il richiamo alla festa offre a Perone uno spunto particolarmente significativo per configurare in una difficile riconciliazione questo transito della filosofia attraverso il tempo verso la stabilità del fondamento. Il tempo della festa illumina in modo appropriato il tentativo filosofico di dare consistenza al presente senza oscurarne la temporalità, o di mostrare il continuare ad essere di ciò che passa, intrecciandolo con il vero che «passando, si manifesta», ovvero che «nasce» nell’istantaneità «pressoché incomunicabile» dell’ora (nell’ora che «non ha sorelle», come ha scritto Celan).
La festa è qui da intendere come la celebrazione del divino che si manifesta passando: essa, in questo modo, genera un proprio tempo – la “ricorrenza”, ovvero il ritorno del passato nel presente, il ricongiungersi di passato e futuro. Quest’esperienza di vita, che «interrompe il fluire dei giorni» e dischiude la presenza del dio, coltiva il punto d’incontro tra umano e divino. Conferisce all’agire un carattere rituale nel quale una comunità «si inventa», non potendola rappresentare, una presenza piena. Nella festa la comunità «tiene fermo» all’«esperienza pressoché incomunicabile» di un divino che c’è già prima del pensiero, all’interno del quale, per altro verso, è «posto» o «fatto nascere». Su questo, che è il vissuto più intenso e ineffabile del presente, la comunità «insiste a costruire […] una celebrazione sociale»: un’attività comunitaria che «costruisce» a suo modo la presenza del divino, «indugiando» nel tempo, facendolo durare, facendo nascere un «tempo salvato», non più destinato a perdizione o annientamento – dando, come dice Perone, tempo al tempo, con espressione che riecheggia ancora Celan («è tempo che sia tempo»). Quella che viene costruita, d’altra parte, è solo la celebrazione di una realtà che è «già sempre là», prima e a fondamento dell’atto celebrativo. Non si costruisce, in questo senso, il divino, ma lo si festeggia, raccogliendo il proprio tempo in una forma di vita che prepara l’avvento improducibile del kairós, ovvero vivendo il presente come «soglia», come transito verso l’evento della verità.
La festività della filosofia