
In un bel saggio del 1989 Ugo Perone definiva il giorno della festa come «il giorno stabile e fisso di un nuovo inizio», che «interrompe lo scorrere regolare degli orologi», e lo paragonava a quel che è per la città la piazza, che interrompe la città senza condurre da nessuna parte. Della festa sottolineava poi l’origine e la portata religiosa, traendone due conseguenze. La prima è che il tempo della festa è un tempo altro, un annunciarsi dell’eterno nella temporalità finita, un tempo che ci è dato. È questa la ragione per cui «le feste non possono essere istituite attraverso un atto di volontà; con un atto di volontà si può soltanto sopprimerle». La seconda conseguenza è che, se la festa è un’interruzione, non è però tale da negare la realtà che viene interrotta, ma piuttosto è capace di aprire per essa una profondità inattesa, sì che dello stesso tempo quotidiano si dovrà dire che è lontano dalla festa ma anche prossimo.
Vorrei sviluppare queste considerazioni sulla natura della festa per poi riflettere sulla sua crisi nell’attuale contesto sociale e culturale.
La festa è finita?