
Nel 2013 è uscita presso l’editrice La Scuola di Brescia la prima traduzione italiana di un’importante opera di Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, figura di assoluto spicco nella filologia classica in Germania fra Ottocento e Novecento, e noto tra i filosofi in particolare per l’impietosa stroncatura che fece in gioventù del libro di Nietzsche sulla Nascita della Tragedia. Anche lui peraltro fu nell’arco d’una lunga, prestigiosa attività scientifica un appassionato cultore del teatro tragico classico e al culmine della sua carriera, nel 1889 (proprio mentre il povero Nietzsche veniva ricoverato nel manicomio di Jena), pubblicò una monumentale edizione dell’Eracle di Euripide – la più tremenda e sconfortante delle tragedie che sia mai stata scritta – in due volumi: il secondo conteneva il testo critico, ampiamente riveduto; il primo si presentava come Introduzione alla Tragedia attica, il cui secondo capitolo intitolato Cos’è una tragedia attica? è appunto il lavoro ora tradotto in italiano.
L’autore qui non nomina mai la monografia nietzschiana da lui tanto aspramente contestata, però le principali tesi interpretative del suo libro sono, in maniera abbastanza evidente, contrapposte a quelle che lì erano state sostenute. Anzitutto, mentre per Nietzsche il compito della Tragedia attica fu quello di diffondere, per mezzo degli strumenti “apollinei” dell’arte, la “saggezza dionisiaca” secondo cui la vita nonostante il dolore e la distruzione dei singoli rimane indistruttibile, Wilamowitz senza neppure accennare alla presunta antitesi di “apollineo” e “dionisiaco” – in effetti priva di fondamento nella cultura greca antica – dichiara fin dapprincipio che il teatro tragico non ebbe alcun rapporto se non estrinseco con la religione dionisiaca. Lungi dal pensare che Dioniso, come si diceva nella Nascita della Tragedia, fosse stato in definitiva “der eigentliche Bühnenheld und Mittelpunkt der Vision”, egli nega energicamente che le vicende e le sofferenze del Dio abbiano mai servito come tali da oggetto di rappresentazione scenica. Persino sull’unico punto dove i due studiosi sono d’accordo, e cioè la tesi (aristotelica) che la Tragedia sarebbe derivata dal coro maschile che cantava il cosiddetto “ditirambo”, le loro interpretazioni divergono di molto. Per Nietzsche il “canto popolare” (Volkslied) che sostituisce il canto individuale degli aedi di epoca omerica esprime mediante la musica la percezione soggettiva dell’Urschmerz, il dolore infinito del mondo travolto da una forza cieca universale che è “das ewig Wollende, Begehrende, Sehnende”; la sua visione del fenomeno letterario è dunque basata su categorie filosofiche astratte di matrice schopenhaueriana ed esclude con sdegno qualsiasi spiegazione di tipo storico-sociale dove il coro rappresenterebbe l’“assemblea costituzionale” contrapposta alla nobiltà. Al contrario, Wilamowitz svolge un’ampia e dettagliata disamina dell’evoluzione della poetica greca fra VIII e VI secolo mostrando come il declino dell’aristocrazia fa emergere le nuove classi mercantili e imprenditoriali, e per conseguenza anche la poesia epica celebrata nelle corti principesche lascia il posto come forma culturale dominante al coro composto da cittadini che propongono gli ideali e i valori etici della polis. Secondo lui la funzione principale del coro non era religiosa ma “patriottica” e ciò spiega che, dovendo celebrare le glorie della Città, esso scegliesse come argomento del canto anche le gesta degli antichi eroi utilizzando, ma con altro spirito, un materiale già proprio dell’epica; ed ecco perché anche il teatro tragico, che si sviluppò a partire dalle gare di cori, pose il più delle volte a tema della spettacolo episodi della mitologia eroica, non la vita e le opere del Dio Dioniso.
La Tragedia nel tempo della festa