
Secondo una famosa descrizione pubblicata esattamente cento anni fa, un rituale religioso della popolazione aborigena australiana praticato intorno al 1900 andrebbe immaginato più o meno in questa maniera: per diversi giorni la tribù dei Warramunga celebra la festa del serpente Wollunqua. Le due sotto-unità della tribù, chiamate scientificamente confraternite, vi assumono ruoli molto diversi. Soltanto una di queste può celebrare i riti legati a determinati avvenimenti; l’altra si limita a «decorare gli attori, preparare lo scenario e gli strumenti, e fare la parte dell’assemblea. A tale scopo essi sono incaricati di preparare in precedenza, con sabbia bagnata, una specie di monticello su cui viene eseguito, con un po’ di peluria rossa, un disegno che raffigura il serpente Wollunqua». Soltanto al giungere della notte inizia la cerimonia vera e propria. I componenti delle due confraternite si avvicinano alla collinetta in gruppi separati e iniziano a cantare. Si trovano già in stato di esaltazione a causa delle giornate che hanno preceduto la festa religiosa e per l’eccitante preparazione di questo momento culminante. A un punto specifico della sempre crescente eccitazione gli uomini della confraternita che celebrano il rito vanno a prendere le loro donne e le consegnano agli uomini dell’altra fratria, dalla quale le donne discendono, in modo che questi abbiano un rapporto sessuale con loro; accade quindi una cosa che sarebbe vietata nella maniera più assoluta al di fuori del momento della festa. Dopo qualche momento anche i giovani appena iniziati vengono invitati e sono introdotti ai segreti del rituale, che viene loro descritto dettagliatamente. Per diverse ore seguitano a cantare, poi la confraternita, illuminata dai fuochi accesi, inizia a circondare la collinetta in una specie di processione cantata. I partecipanti s’inginocchiano ritmicamente, si rialzano, piegano i loro corpi a destra e a sinistra ed emettono un ululato al quale i componenti dell’altra confraternita rispondono con un rumore prodotto mediante boomerang. Infine all’alba, sotto incitamento di una delle confraternite, l’altra assalta la collinetta armata di lance, bastoni e boomerang, la distrugge e spegne i fuochi. Tutto finisce in un grande silenzio.
Pare difficile sottrarsi alla forza di questa descrizione. Sebbene non possa garantire per la sua correttezza, non dubito però del fatto che anche per coloro che provengono da culture secolarizzate, lontane da ciò che è rituale, sia possibile immaginarsi l’esperienza qui descritta, poiché avranno fatto esperienza di essa (sebbene in forma magari più mite) nelle feste d’infanzia e d’adolescenza, durante il carnevale, a un concerto rock oppure allo stadio o durante le manifestazioni di massa. Si tratta dell’esperienza di un cambiamento radicale del proprio io, di un’improvvisa trasformazione in un altro essere, che viene ulteriormente favorita dai travestimenti, dalle maschere o truccando il viso o il corpo intero. Inoltre, poiché essa non è limitata a un singolo, ma coinvolge anche tutti gli altri, non appare trasformato soltanto il proprio io, ma l’intero gruppo, addirittura il mondo intero. È questo un mondo nuovo, un mondo pieno di forze sconosciute e intense che generano la trasformazione dell’io che ne fa esperienza. Questo mondo altro di cui si fa nuova esperienza pare esistere in maniera autonoma, al di là dell’incontro con esso, e pare abitare da sempre alcuni luoghi, aprirsi a noi in dati momenti, agire attraverso certi animali, piante o anche nelle ossa degli antenati. Pare ci siano «due mondi eterogenei e incomparabili tra loro». Detto con le parole dell’autore della descrizione che ho utilizzato: «L’uno è quello in cui egli trascina languidamente la sua vita quotidiana; invece nell’altro egli non può penetrare senza entrare subito in rapporto con potenze straordinarie che lo galvanizzano fino alla frenesia: il primo è il mondo profano, il secondo è quello delle cose sacre».
S’intende con ciò che il rituale è la fonte della sacralità. Naturalmente, sebbene molti rituali avvengano presso luoghi già santificati e non facciano che riportare alla memoria un accadimento sacro celebrandolo, sarebbe sbagliato, in questa prospettiva, presupporre semplicemente la sacralità o limitare il termine “sacro” a contesti religiosi nel senso più stretto, contrapponendolo quindi a “secolare”. A livello concettuale, chi pensa così confonde due diverse distinzioni: la distinzione religioso/secolare e la distinzione sacro/profano. La distinzione sacro/profano è senz’altro costitutiva per tutte le religioni, ma ciò non significa che debba rimanere limitata alla religione. Anche concezioni secolari del mondo contengono un’intrinseca differenziazione di sacro e profano: un bene o un male dal potere smisurato e senza limiti da un lato, contro il quotidiano, poco intenso e moralmente debole dall’altro. Se le cose stanno così, allora l’analisi della nascita della sacralità costituisce un compito d’importanza centrale. Le analisi storiche devono allora sempre soppesare in maniera equilibrata da un lato lo sbiadire delle antiche sacralità, come avviene ad esempio nel processo di secolarizzazione, e dall’altro il nuovo sorgere di sacralità, come avviene nella trasformazione dei valori e in nuovi fenomeni culturali. A questo punto il dato di fatto della nascita della sacralità nella storia dell’uomo potrà servire come criterio per stabilire se abbiamo posto una concezione antropologicamente sostenibile alla base dei nostri modelli dell’agire umano. Quest’ultimo punto di vista sarà la linea guida del presente saggio. Per questa ragione ho scelto il sottotitolo Riflessioni per l’antropologia della formazione dell’ideale.
Il rituale e il sacro. Riflessioni sull’antropologia della formazione dell’ideale