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Metafisica e tempo della festa

Num°15 FESTIVAL II
NicolaciPiramoeTisbe

Immaginiamo che l’oracolo di un dio misterioso sentenzi, a mio esclusivo beneficio, che arriverà primo alle corse l’atleta la cui vittoria meno mi aspetto. Detto fatto, scommetto un cospicuo gruzzolo sull’atleta meno bravo e più sfavorito e perdo, a giusto titolo, perché arriva primo il più bravo e il più favorito dai pronostici: per l’appunto quello che meno mi aspettavo vincesse. Il fatto è che l’oracolo, se veridico, non poteva non aver messo in conto il cambiamento che le mie aspettative avrebbero subito quando o, se preferiamo, appena dopo che il suo contenuto mi fosse stato comunicato. I conti tornano, ma lo scopro troppo tardi, quando non c’è più nulla da fare per il mio portafogli saccheggiato. E non mi conforta dover concludere che nulla, comunque, c’era da fare per la sua salvezza. È la logica paradossale e per sua struttura perdente del gioco della morra cinese: va da sé che, quando anch’io nel mio calcolo avessi messo in conto il mutamento d’opinione intervenuto in me, un tempuscolo dopo il senso della mia aspettativa sarebbe cambiato nuovamente e avrei dovuto rivedere nuovamente i conti; e così via via fino a quel tempuscolo ultimo, necessariamente non più disponibile al mio desiderio, in cui si fosse consumato il fatidico gesto della scommessa. Ah, se in quell’istante, in cui nulla vi sarebbe stato ormai da aspettare, il fato amico mi avesse visto operare in senso contrario all’aspettativa da me nutrita nel penultimo istante! In vista di quel penultimo istante il tempo di tutta la storia verrebbe messo in conto a rovescio quasi provenisse dall’ultimo, in cui nulla vi fosse ormai da fare per il mio desiderio. Vano miraggio! Come diceva Aristotele, il tempo non è una successione di istanti. Qui non si tratta di amicizia o di inimicizia della sorte. In ogni caso i conti alla fine tornerebbero. Vincerebbe comunque chi, non da me ma dall’oracolo che non ha altra colpa se non d’esser veritiero, era stato previsto vincesse. Stando alla conclusione della storia, potrebbe dirsi che in certo senso, alla fine, non accade niente: niente, intendo, più di quanto era assolutamente prevedibile che accadesse. Se diciamo che non si sfugge al vaticinio del fato, che non si può rovesciare la sorte, è perché in realtà non c’era nessuna sorte avversa da rovesciare. Eppure, in mezzo, qualcosa, che non era affatto in conto, è accaduto. Quel che, alla lettera, ne è andato di mezzo è la salute del mio stato patrimoniale. A lei può ben dirsi che la sorte è stata avversa e la verità fatale. Senza l’oracolo sarebbe stata ancora in fiore.

Come è noto, di simili trucchi della parola erano ricchi gli oracoli dei miti che fiorivano fin dall’epoca tragica dei Greci e dei primi filosofi dai cui pensieri, d’improvviso, come per un’inattesa virata, vennero fuori, con disappunto di Nietzsche, Socrate, la metafisica e la sua tradizione. Ne erano ricche anche le argomentazioni dei nuovi maestri di saggezza cui si opposero Socrate e i più illustri dei suoi discepoli di Atene. In questo caso, però, la materia dell’inganno non viene direttamente dalla parola, ma da quell’intreccio mai del tutto dipanabile fra il tempo e quanto vi accade, che impegna non da oggi l’attenzione dei filosofi perché sembra attrarre oscuramente nelle sue trame il legame fra la verità e il tempo. Là si annida la seduzione di una figura ingannevole che potrebbe indicarsi come la nudità del vero. All’insidia racchiusa nella notizia dell’oracolo, il cui sopravvenire danna inesorabilmente alla perdizione il contenuto del mio portafogli, somiglia un poco l’incidente del velo perduto da Tisbe (o della vela, per far memoria anche di Egeo e di Tristano), che basta a volgere in tragedia l’amore di Piramo. La materia della seduzione non è meno sottile dell’attesa ingannevole che si consuma in quel penultimo istante che sfuggirà comunque al mio calcolo e che, però, l’oracolo del dio non trascura di rimettere al suo posto. La fiducia con la quale mi precipito inevitabilmente troppo presto al botteghino delle scommesse ha qualcosa del vano dolore di Piramo che non esita a uccidersi al falso annuncio della morte atroce di Tisbe; e a giusto titolo, dato che effettivamente essa morirà sul corpo esanime dell’amato, anche se nessuna belva avrà mai affondato le zanne insanguinate se non nel breve spessore del velo che la fanciulla ha perso fuggendo. Come non riconoscere qualcosa di strappato alla verità – che invece, ma lo si scopre troppo tardi, i suoi veli se li tiene cuciti addosso – in quel sottile tessuto ingannatore che, rifratto come in un caleidoscopio attraverso i millenni dal genio di Shakespeare, fluttua invisibile sugli occhi di Macbeth e di Romeo, e riappare fra le mani incolpevoli di Cassio?

In tutte queste trame luttuose l’elemento comune, il tratto propriamente tragico, è che al fondo non c’è il rovescio di fortuna (non ci sono fanciulle rubate anzitempo alla vita né foreste che vanno in giro ad assaltare castelli e Desdemona non ha mai tradito contro ogni attesa il suo amore). La peripétheia dell’antica tragedia si assenta, lasciando che sia piuttosto il suo fantasma a governare tutta la vicenda fino alla catastrofe; dove diventa proprio quest’assenza, dolente d’improvviso come una ferita invisibile, il vero rovescio di fortuna (alla fine dei conti proprio che Tisbe non sia morta, che Desdemona non abbia tradito, è il tragico). Che l’a-létheia potesse giocare così crudelmente col desiderio umano è cosa che i classici dell’età tragica non avrebbero osato mettere in scena. Quel che accade, in queste trame, è che qualcosa non accade, quasi l’assenza d’evento si positivizzasse lasciandosi imprigionare in una sua implausibile durata, in un suo tempo finito che, non potendo essere marcato in alcun modo nella parola e nell’anima dato che dentro, appunto, non vi accade nulla, va sempre, inesorabilmente, fuori conto.

Metafisica e tempo della festa

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Numero 15 FESTIVAL II ottobre, 2015 - Autore:  Condividi

 

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