
Gli studi sulla festa spesso adottano una metodologia prevalentemente descrittiva e utilizzano copiosamente i risultati di ricerche storiche ed etnologiche. Pertanto, è facile trovare tra loro evidenti concordanze e riferimenti a tipologie festive comuni. È molto frequente, ad esempio, che ci si soffermi sulle feste carnevalesche, le quali sorprendono per la loro vistosità: costumi sgargianti, balli rumorosi, abolizione delle regole e delle differenze sociali, sovvertimento delle usanze, sfoggio della corporeità.
René Girard rileva che l’osservatore moderno è inevitabilmente colpito dalla presenza in molte feste dell’annullamento della differenza, della promiscuità, della trasgressione. Altrettanto enigmatiche, inoltre, appaiono quelle che si possono chiamare “antifeste”, ovvero periodi più o meno lunghi in cui certi gruppi sociali vivono un’estrema austerità e un rigoroso rispetto dei divieti. Ma Girard giunge a una conclusione ben precisa: tali elementi festivi che ci stupiscono non sono la ragion d’essere della festa, giacché la sua funzione è quella di «vivificare e rinnovare l’ordine culturale ripetendo l’esperienza fondatrice, riproducendo un’origine che è percepita come la fonte di ogni vitalità e fecondità: è in quel momento, infatti, che più stretta è l’unità della comunità, più intensa la paura di ripiombare nella violenza interminabile». Pertanto, secondo questo pensatore, andrebbe attribuita all’ignoranza del pensiero religioso il fatto di limitarsi a classificare e a differenziare i riti festivi, di cui invece si è perso di vista il vero oggetto e il nucleo essenziale; si è, infatti, arrivati alla condizione di una «cecità moderna a proposito della festa, e del rito in genere».
Sarebbe interessante seguire Girard pure riguardo alle sue riflessioni sul decadere della festa, di cui trova una forma emblematica nei film di Federico Fellini. Ma non desidero proseguire in questa direzione. Vorrei, invece, cogliere il suo spunto sul collegamento tra la natura della festa e un’esperienza fondatrice. Tale affermazione non ci obbliga a valutare in toto la teoria girardiana sul sacro e sul superamento della violenza. Nella tesi menzionata, invece, possiamo scorgere e condividere l’idea che la festa in quanto tale ha a che fare con l’origine dell’umanità e della persona, della storia e della società. È una tesi che trova concorde Josef Pieper, il quale segue un percorso speculativo alquanto diverso, ma giunge alla conclusione che la festa chiama in causa la totalità del reale e dell’esistenza, giacché essa affonda le sue radici nel consenso radicale e nell’accettazione del mondo e del proprio essere.
Dal canto mio, condivido questa idea centrale e ritengo che una riflessione adeguata sulla festa debba spingersi fino alla prospettiva propria dell’antropologia filosofica: fare tesoro dei contributi forniti dall’antropologia culturale per interrogarsi sulle strutture portanti dell’esistenza umana. In queste poche pagine vorrei limitarmi a mettere brevemente in luce solo una di tali strutture, ovvero la relazionalità della persona, avvalendomi del fatto che ho già esposto altrove lo sfondo concettuale e i riferimenti bibliografici delle mie considerazioni, sicché posso non attardarmi a presentarli nuovamente.
La relazionalità della festa: Pietas, dono, gratitudine