
Nel gennaio del 1869 il ventiseienne Hermann Cohen tenne una conferenza dedicata al sabato ebraico, con particolare riguardo alla questione del suo valore sociale. Il testo della conferenza, intitolato Der Sabbat in seiner kulturgeschichtlichen Bedeutung, rimase inedito per diversi anni, ma venne poi pubblicato nel 1881 su “Der Zeitgeist”, un periodico ebraico in lingua tedesca stampato negli Stati Uniti. In vista di questa pubblicazione l’autore corredò il testo di una postfazione che risulta scritta nel 1880, quindi nel medesimo anno in cui – secondo un giudizio retrospettivo pronunciato nel 1914 da Cohen stesso – si deve far iniziare (con lo scritto Ein Bekenntnis in der Judenfrage e con il dibattito in cui questo scritto si colloca) il “ritorno” di Cohen all’ebraismo.
In Der Sabbat in seiner kulturgeschichtlichen Bedeutung, dopo aver affermato riguardo alla statuizione del sabato da parte di Dio che «la fede che qualcosa derivi da Dio o dagli dei […] non significa altro che l’ammissione che non sappiamo o non vogliamo spiegarlo a partire dall’essere umano», Cohen cerca di tracciare la genealogia del sabato ebraico, sottolineandone i tratti comuni rispetto a usanze simili di diversi popoli dell’antichità, tra i quali hanno particolare rilievo i Romani. A questo proposito Cohen individua le origini del sabato ebraico nel giorno della settimana dedicato a Saturno; risale infatti ai Caldei la denominazione dei giorni della settimana con il nome dei corpi celesti, ognuno dei quali era per i popoli dell’antichità una divinità. Il dio identificato con il pianeta Saturno (e indicato con nomi differenti presso i diversi popoli e nelle diverse lingue) era, per le più antiche popolazioni semitiche, la suprema divinità e il giudice divino che punisce le ingiustizie. A questa rappresentazione di un sommo dio custode della giustizia si legò il mito, che si sviluppò soprattutto tra i Greci e ancor più tra i Romani, di un’antica era ormai tramontata (che avrebbe però forse potuto ritornare) in cui questo dio regnava sugli esseri umani, che sotto la sua signoria vivevano felicemente in pace senza ingiustizie, privazioni e disuguaglianze. Per questo, afferma Cohen, a questa figura divina furono dedicate presso i diversi popoli feste (il cui esempio più noto sono certamente i Saturnalia romani) consistenti in un provvisorio rovesciamento o in una temporanea cancellazione delle differenze di ceto, e in particolare del rapporto tra schiavo e padrone. Il sabato ebraico e queste feste, secondo Cohen, hanno dunque un’origine comune nel culto di Saturno.
Il riconoscimento di questa comunanza di origine tra il sabato ebraico e i Saturnalia romani o altre feste simili, nonché delle affinità che dalla loro comune origine discendono, non significa però che si debba vedere un’identità tra il sabato ebraico e queste feste: il sabato ebraico non è una sorta di carnevale in cui i rapporti sociali sono rovesciati provvisoriamente e – soprattutto – per scherzo; si tratta invece di una seria istituzione volta all’uguaglianza dei membri del popolo e al bene delle classi lavoratrici. Per spiegare ciò Cohen sottolinea due aspetti importanti della legislazione mosaica e dell’ordinamento dell’antico Israele: il primo aspetto è che l’antico Israele era una teocrazia; la natura teocratica del suo ordinamento deve però essere compresa, secondo Cohen, alla luce delle riflessioni di Spinoza, che ha mostrato il carattere democratico della teocrazia mosaica; Spinoza ha infatti spiegato come il fondamento della teocrazia mosaica sia la cessione, da parte di ognuno, dei propri diritti a Dio, quindi a nessun altro essere umano, a nessun sovrano mortale; questa teocrazia è dunque democrazia nel suo basarsi sul rifiuto che un membro del popolo possa essere signore degli altri, i quali sono a lui uguali in quanto fratelli, figli del medesimo padre divino. A questo proposito Cohen richiama le parole del Deuteronomio, ove Dio, rivolgendosi al popolo di Israele, comanda: «se dirai: Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, […] quando [questi] si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti. La terrà presso di sé e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore suo Dio […] perché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli». Come si vede, il pericolo che l’istituzione della monarchia (che nel testo del Deuteronomio appare come una possibilità futura) arrecherebbe alla teocrazia e quello che essa comporterebbe per l’uguaglianza (o per la democrazia, continuando a usare questo termine spinoziano) sono indissolubilmente legati: non temere Dio, ponendo la sua legge al di sotto del proprio volere, e insuperbirsi nei confronti dei propri fratelli, arrogandosi il titolo di loro signore, sono infatti per il re due tentazioni indisgiungibili, anzi, sostanzialmente coincidenti. Nonostante questo precauzionale comandamento, del resto, il fatto che l’istituzione della monarchia costituisca comunque un indebolimento della teocrazia viene affermato chiaramente dalle parole – anche queste richiamate da Cohen nel suo saggio – che Dio rivolge al profeta Samuele quando gli israeliti chiedono di poter avere un re; pur comandando al profeta di accordare agli israeliti quanto da loro richiesto, Dio afferma infatti: «costoro […] hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi».
Per il diritto al giorno di festa