
Anche la pura preghiera che “venga il Tuo Regno”, che la Tua Grazia mi salvi, rientra nello schema di scopo e viene afferrata, alla fine, nel “va e vieni della prestazione” (Benveniste), nella forma della reciprocità. La “volontà di salvezza” non può non implicare un richiedere o un attendersi. Un dono che nulla attende, in questo senso gratuito, un dono che fosse amor intellectualis per il donare in sé, sarebbe, allora, pura dépense, atto acefalo, gioia senza perché derivante dall’essersi svuotati, spossessati (de-habere) del Sé e di ogni sua intenzione. E anche tale svuotarsi, tale kenosis dovrebbe apparire estranea a ogni volontà o intenzione. Il paradosso tocca il suo estremo quando, inoltre, si rifletta sul fatto che tale dono neppure potrebbe avere destinatario, che esso equivarrebbe a un donare a Nessuno. Non appena di fronte al donare compaia un’altra figura, è impossibile non condizionarla o non esserne condizionati. È impossibile non attendere in generale, se un altro ci riguarda. E allora un dono perfettamente gratuito non appare concepibile che nella prospettiva della radicale de-creatio: annullamento del Sé, noluntas, e insieme annullamento dello sguardo dell’altro, sguardo che l’idea del dono in quanto tale necessariamente comporta. Su tale paradosso si concludevano le pagine di Della cosa ultima dedicate alla figura del Dono-Perdono. Ad esse è inevitabile io rimandi; quelle che seguono non ne costituiscono che un rapsodico e del tutto provvisorio sviluppo.
Oltre il dono