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La serietà della lotta e del lavoro: un colloquio con Maurizio Landini

Num°18 SERIOUSNESS
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Gentile Segretario Generale Landini,

La ringraziamo per avere accettato di rispondere ad alcune domande per “Spazio Filosofico”. Noi crediamo nel significato politico della filosofia, e crediamo nel significato teorico delle prassi di lotta e di emancipazione. Abbiamo scelto di dedicare il nostro primo numero, uscito nel gennaio 2011, al tema del lavoro. Ci sembrava allora, e ci sembra ancor oggi, che nulla sia più urgente, per la teoria e per la prassi.

La nostra intenzione nei confronti del concetto di serietà è di liberarlo da ipoteche e fraintendimenti e di renderne di nuovo disponibili i significati fondamentali, possibilmente diversificandoli in base ai settori. Vorremmo cioè capire per esempio che cosa significa per la politica esser seria, o per la musica, per lo sport, per l’educazione, per la religione…

Crediamo che il concetto in sé si trovi da tempo in stato di sofferenza, che sia oggetto di manipolazione e che una delle armi della manipolazione sia lo scherno. Spesso viene scambiato con il concetto che ne è la parodia, quello di seriosità, e di conseguenza appunto schernito. Non c’è niente di meno serio della seriosità, dell’ostentazione di serietà che usa l’aspetto, la mimica che si ritiene tipica della serietà per “atteggiare” una situazione, o per atteggiarsi in linea con una situazione cui ci si sente in obbligo di rendere omaggio. Viene poi presto il momento di smorzare quest’aspetto che può spaventare e allontanare i consumatori di immagini, di alleggerirlo con una battuta: l’omaggio è stato reso, si può riprendere il gioco consueto. Ci chiediamo, per esempio, se espressioni come Repubblica “fondata sul lavoro”‘ o “nata dalla Resistenza”, che in apparenza tutti condividiamo, siano ancor oggi utilizzate o proferite in modo serio, e non appunto a titolo di semplice omaggio formale, che viene reso per poi occuparsi d’altro.

Quanto questo stile di comunicazione sia diventato un costume in ogni campo è cosa nota. Rimettere sui suoi cardini il concetto di serietà può essere un passo decisivo nel recupero delle distinzioni. Non saper più distinguere fra seriosità e serietà è un po’ come non essere in grado di intendere e di praticare la distinzione fra moralismo e morale, o fra buonismo e bene, o fra pretesa di verità e verità.

1. La gerarchia delle cose serie

Parlando del primo periodo della sua vita lavorativa, lei racconta di essersi accorto che il freddo, il disagio erano un problema serio, e che ha chiesto alla cooperativa di affrontarlo, incontrando delle resistenze. In un passaggio molto più recente della sua attività di sindacalista, quello del referendum in Fiat, lei dice che un conto è trattare sui turni, quello si fa, un altro conto è trattare sui diritti come il trattamento di malattia o lo sciopero. In questi casi c’è una gerarchia oggettiva di cose serie da rispettare? È sensato aspettarsi che parti in causa con diversi interessi convergano nel riconoscimento delle priorità? Che queste godano di una qualche evidenza e che quest’evidenza abbia a che fare con il concetto di serietà? Come si fa, come fa lei nel mondo del lavoro a mettere in fila le questioni in base alla loro maggiore o minore serietà? Quali sono i tratti distintivi delle cose davvero serie, quelle su cui non si negozia, che diventano bandiere, valori in sé da difendere ad ogni costo, e non solo fino a una certa soglia?

Una cosa è trattare sull’organizzazione del lavoro, per andare incontro alle richieste di mercato ed ai picchi produttivi, altra cosa è trattare sui diritti della persona che lavora.

Anche nel caso di modifiche temporanee o definitive dei turni, queste devono comunque tener conto del diritto del lavoratore al riposo e alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro. Rispetto alla mia esperienza lavorativa, di fronte ad un disagio che nulla aveva a che fare con esigenze di produttività, ho chiesto alla cooperativa di intervenire. Di fronte alle loro risposte, ho capito che l’unica soluzione era contrattare collettivamente la mia condizione. Quello che è successo in Fiat è diverso, molto più grave. L’azienda e i sindacati firmatari di quell’intesa sono andati a toccare diritti sanciti da legge e Costituzione in capo alle persone, non alle organizzazioni sindacali.

I lavoratori sono persone e nulla deve toccare il loro diritto a riposare tra un turno e l’altro. Il rischio è che quelle persone si facciano male, si “rompano”. Infatti, quando si parla di aspettativa di vita, non è mica per tutti uguale. Chi fa un lavoro usurante ce l’ha più bassa.

Nessuno deve toccare il diritto delle persone a curarsi quando sono malate.

E nessuno può limitare la libertà delle persone a organizzarsi collettivamente per contrattare la propria condizione lavorativa e di scioperare per cambiare la situazione.

2. La serietà del potere e del conflitto

Il suo mestiere di sindacalista vive di una distinzione che da molti oggi è messa in discussione, come se fosse superata storicamente: quella fra padrone e lavoratore. Lei ha affermato che tale distinzione è tuttora ben presente, e che è una pericolosa illusione quella di immaginare relazioni industriali improntate a complicità e comunanza di intenti. Potremmo dire che il conflitto dunque è serio, così come seria è la questione del potere e di chi lo detiene in assenza di contrasto o di compensazione? In che senso lo è, e quale significato di serietà ricaviamo da questo “salvataggio” di antiche parole? Che ne pensa della tendenza a conciliare e a negare la serietà del conflitto e delle differenze di potere, come se da un certo punto in poi ci si fosse ridotti a un gioco delle parti che soddisfa solo gli interessi dei rappresentanti e non dei rappresentati? Che funzione ha secondo lei questa logica dell’indistinzione nella società contemporanea? Gli imprenditori e i manager vogliono essere riconosciuti essi stessi come lavoratori, il linguaggio di una volta, che sottolineava le differenze e alzava steccati, è sempre più sfumato, accusato di essere obsoleto. Non sarebbe più serio conservare invece le distinzioni (tra capitale e lavoro) e resistere al prevalere dell’indistinto?

Chi lavora lo sa che c’è una profonda differenza. È pura ipocrisia far finta che non sia così. Quando Marchionne dichiarò a “Che tempo che fa” che anche lui era un operaio della Fiat si sono tutti infuriati. Tra l’altro l’idea di socializzare le perdite e privatizzare i profitti non è un’idea così nuova. La crisi ha impoverito tanti e arricchito pochi. Quando lavori e sei povero, vuol dire che il livello delle disuguaglianze che ha raggiunto il Paese è intollerabile. Il problema che vedo, nel senso comune, è soprattutto che è passata l’idea di una fabbrica contro l’altra, di lavoratori contro lavoratori. Una guerra tra “poveri” che lascia solo sconfitti.

3. La teoria e la prassi in rapporto alla serietà

Anche questa distinzione, quella fra teoria e prassi, o azione, soffre di un ormai cronico problema di perdita di rispetto. O meglio, la teoria e chi la produce, gli intellettuali di professione, sono considerati poco seri rispetto agli esecutivi, ai tecnici, ai pratici, a chi produce cose o denaro. Seria è la prassi, serio è il fare, almeno nel discorso dominante, specie in politica. Ci aiuti a mettere qualche paletto protettivo intorno alla serietà della teoria, del pensiero, delle idee, dalla sua prospettiva di uomo che difende per esempio un’idea di lavoro, e non semplicemente il lavoro.

La mancanza di un’idea di Paese è il prezzo che rende la crisi più pesante da noi che altrove. Sono vent’anni che manca una politica industriale e, quindi, delle azioni coerenti che seguano un indirizzo, un progetto. Oppure, e questo sarebbe anche peggio, l’idea che qualcuno ha del Paese è proprio questa: il lavoro ridotto a merce, privato di ogni dignità e libertà. Per anni il lavoro è stato svalutato e sembrava che uno dovesse vergognarsi se doveva lavorare per vivere.

La nostra idea di lavoro è un’altra. Non è solo un mezzo di sostentamento (quando riesce ad esserlo). È lo strumento attraverso il quale le persone si realizzano come individui, mettono la loro intelligenza a servizio dell’impresa e della comunità. Per essere ciò, però, deve essere dignitoso e con diritti, altrimenti è sfruttamento di manodopera e basta.

4. Politica e sindacato: dove sta la serietà?

Sempre collegata a questa tendenza del nostro tempo a perdere le distinzioni, c’è una questione che ha molto a che fare con le sue scelte di vita. Quando lei sostiene che è ingiusto accusare lei e la sua organizzazione di fare politica, perché in realtà voi fate accordi, che questo è tuttora il vostro mestiere, che questo è tuttora necessario, lei intende dire che la politica è meno seria dell’azione sindacale? Oppure che seria è la questione dell’indipendenza reciproca? Che cosa c’è di così rilevante in questa distinzione? Che cosa rende così difficile oggi pensare la politica come il teatro d’azione in cui ne va della giustizia e dell’ingiustizia sociali e quindi del problema serio per eccellenza?

Ci sono due punti. Il primo, quello dell’indipendenza, è un tema centrale per la Fiom. I metalmeccanici della Cgil hanno sempre avuto una loro idea di società e si sono sempre battuti per realizzarla. La grande differenza è che prima la Cgil aveva un partito di riferimento che faceva dei diritti dei lavoratori uno dei suoi punti centrali. Oggi non è più così. Il lavoro (e i suoi diritti) è il grande assente della discussione politica. Anzi, peggio, entra nel dibattito solo quando le conquiste sociali devono essere ridotte o cancellate. Prima ci battevamo nelle aziende per chiedere l’applicazione delle leggi e dei contratti, oggi ci troviamo a chiedere che le norme approvate dal Governo Monti in poi non siano applicate. È uno scenario totalmente differente. Per questo il tema dell’indipendenza e della capacità di fare proposte è un tema centrale. E, con pari dignità, quelle proposte le abbiamo sempre discusse con tutte le forze politiche che le hanno volute ascoltare. Talmente i problemi di chi lavora sono lontani dal dibattito politico, che la Cgil ha steso uno nuovo Statuto dei lavoratori, la Carta dei diritti, e ha raccolto le firme per alcuni referendum sul lavoro che, salvo elezioni anticipate, dovrebbero essere indetti in primavera.

5. Che cos’è una riforma seria?

Un’ultima domanda, maggiormente collegata all’attualità. Spesso si usa e si abusa del termine “epocale” per definire alcune riforme. Il Governo ha presentato come riforme epocali il Jobs Act, la riforma costituzionale, quella elettorale, la “buona scuola”, la riforma della Pubblica Amministrazione. Non le chiediamo che cosa pensi nel dettaglio di queste riforme. Piuttosto: le definirebbe riforme serie? Quand’è che una riforma è seria? E una riforma seria è per ciò stesso una buona riforma?

 

Potremmo richiamare Ennio Flaiano quando sosteneva che “in Italia la situazione è grave, ma non seria”. Una riforma seria dovrebbe affrontare i nodi strutturali di un Paese: la mancanza di infrastrutture (e non parlo del ponte sullo Stretto), il tasso bassissimo – tra i più bassi in Europa – di fondi sia pubblici che privati in innovazione e ricerca, i ritardi sulla green economy, la mancanza di lavoro, la precarietà, per non parlare poi della corruzione e dell’evasione fiscale.

In poche parole, dovrebbe rimuovere tutto ciò che rende l’Italia non competitiva e non attraente per gli investimenti stranieri.

Per anni ci hanno spiegato che il problema competitivo del nostro Paese era l’articolo 18. L’hanno di fatto eliminato e non ho visto file di imprenditori stranieri alle dogane. Hanno stanziato una marea di soldi pubblici con il Jobs Act per le assunzioni a “tempo indeterminato” – ovvero indeterminato finché il datore di lavoro non decide di licenziarti – e, ora che gli incentivi diminuiscono, si scopre che di posti di lavoro nuovi ne sono stati creati davvero pochi e che l’unica forma cresciuta in maniera esponenziale sono i voucher, ovvero – sempre sul tema della dignità – il lavoro acquistato in tabaccheria.

(a cura di Luciana Regina ed Enrico Guglielminetti)


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