1. In quel che segue, mi propongo di offrire alcuni spunti di riflessione e domande lungo un percorso che tocca solo alcune delle questioni oggi in discussione a proposito delle trasformazioni del lavoro, lasciando ove possibile che sia una certa intentio filosofica, che evito accuratamente di costringere in una definizione preliminare e di chiarire ulteriormente, a investire almeno implicitamente il tema. Le considerazioni che seguono non hanno dunque nulla di sistematico, ma costituiscono una specie di ‘carotaggio’ per un’analisi a venire. La sfilza di domande che nel seguito mi capiterà di formulare rimane pertanto aperta, anche se un certo tono lascia intendere in quale direzione cercherei più volentieri la risposta.
2. Cominciamo dunque col dire quel che la proposizione “l’uomo è l’animale che lavora” (com’è noto, animal laborans e homo faber non dicono però il medesimo) suggerisce, invita cioè a riformulare o riconsiderare, insieme a una fenomenologia delle forme del fare, il senso fondamentale della prassi – nell’accezione precisa e radicale per cui la prassi (al plurale: le pratiche) deve essere posta a fondamento dell’umanità dell’uomo. La riproposizione del tema della prassi ha sempre un effetto critico e anti-ideologico (per esempio nei confronti di spiritualismi sempre risorgenti, ma anche di forme volgari di materialismo). Di questo ‘effetto’ sembra che abbia sempre nuovamente bisogno anzitutto la riflessione filosofica, a cui tocca produrlo, ma di cui è insieme anche il prodotto. Se è così, è sempre richiesta, nella posizione del tema della prassi, la consapevolezza circa la performatività del discorso filosofico, ma insieme anche delle pratiche, delle condizioni e del contesto da cui emerge ed è determinata la stessa pratica filosofica.
3. Ma è richiesto anche di comprendere se questo tema del lavoro abbia oggi una sua specificità. La prima (non l’unica) possibile risposta a questa domanda è la seguente: la possiede, perché effettivamente certe condizioni del lavoro contemporaneo sono inedite, e con esse prende figura una forma nuova di organizzazione dell’economia e della società, che sembra prolungarsi fino a disegnare una nuova figura dell’umano.
Ora, un nome per queste condizioni è flessibilità (organizzazione del lavoro post-fordista fondata sul principio del just in time, estesa tanto alla disponibilità di merci quanto alla disponibilità di forza-lavoro, ecc.). Non nel senso che le riassume tutte, ma nel senso che le raccoglie sotto un aspetto vistoso, che balza agli occhi – e agli onori delle cronache. Se però si conta il monte di ore lavorate nel mondo (non solo nella vecchia Europa) da lavoratori salariati, si scopre che viviamo nell’epoca in cui questa cifra ha raggiunto il valore più alto. C’è di più: un conto è la flessibilità in alto, nei segmenti alti del lavoro contemporaneo, in cui sono richieste conoscenze e competenze particolarmente qualificate, un altro è la flessibilità in basso, la flessibilità del lavoro dequalificato, che è per lo più solo l’estrema precarizzazione del rapporto di lavoro spogliato in larga misura di tutele giuridiche e rappresentanze sindacali. Il nome ‘flessibilità’ non può, forse, genericamente coprire condizioni di vita e di lavoro così differenti: economicamente, sociologicamente e giuridicamente. Quando lo fa, la domanda è se non vi sia in ciò un preciso effetto ideologico…
Lavoro e natura umana