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Il lavoro come conoscenza. Uno sguardo semiotico

Num°01 WORK

“Lavoro” si può dire in molti modi, anche filosofici. “Lavoro” è senz’altro un termine di filosofia della politica, dell’economia e della scienza, ma anche di filosofia morale e di etica applicata. Molto più raramente, sebbene in modo estremamente significativo come nel celebre passo hegeliano della Fenomenologia dello Spirito, “lavoro” è stato un termine di filosofia teoretica, alla quale esso è più spesso apparso come un termine applicativo di qualche struttura o strumento della realtà o della conoscenza che costituirebbe il vero cuore della disciplina. Il problema del lavoro è in questo senso un punto emblematico di una certa concezione della filosofia teoretica, che a mio avviso ha bisogno di una profonda revisione o, meglio, come cercherò di argomentare, di una costruzione complementare a quella in voga negli ultimi secoli. Le ricerche svolte finora mi conducono a considerare la distinzione tra analitico e sintetico come la chiave di volta di tale concezione, i cui esiti ultimi conducono anche a quella distinzione tra teoria e pratica che influisce tanto nella dimenticanza o svalutazione del termine “lavoro”. Il primo compito che questo articolo si propone è quello di  raccontare questo percorso e di presentare l’idea di un nuovo paradigma.

Successivamente, proverò ad articolare questo paradigma per il caso del lavoro poggiando la mia interpretazione su un certo tipo di semiotica, cercando attraverso quest’ultima di dare una definizione della legge che rende “lavoro” un’azione.

1. L’eredità kantiana. Si è detto che la svalutazione del lavoro, o il suo essere confinato ad aspetti specifici della filosofia, è dovuta a un’eredità che deriva da Kant. Si potrebbe forse dire, con più precisione, che si tratta di un’eredità molto più antica che trova la sua codificazione in Kant. Tuttavia, senza addentrarci in una questione che comporterebbe una lunga ricerca filologica, utilizzeremo l’immagine classica del giudizio e del ragionamento data da Kant per identificare i termini del nostro problema. Quest’ultimo, a mio avviso, nasce proprio dalla distinzione sintetico-analitico che il pensatore tedesco propone all’inizio della Critica della Ragion pura.

Secondo Kant un giudizio analitico sussume un predicato sotto un soggetto, mentre un giudizio sintetico deve guardare al di fuori del soggetto-concetto, all’esperienza, per capire come il predicato sia connesso a un concetto, ma non incluso in esso. Come Quine e Kripke hanno messo in luce, nell’opera di Kant analiticità, aprioricità, e necessità formano un circolo nel quale ogni elemento giustifica e coincide con gli altri. I giudizi analitici sono necessari perché sono a priori ed, essendo a priori, sono necessari e quindi analitici. In questo modo il livello logico (analisi), epistemico (a priori), e metafisico (necessità) coincidono, fornendo in quest’unità il modello di una conoscenza vera o garantita…

Giovanni Maddalena

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