«Nelle elezioni trionfa danaro, il favore, l’imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità imperdonabile… Tutto cade. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso. Le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d’unione».
Di quale Italia si parla? Di quella di oggi? In realtà si tratta di un testo di Giuseppe Prezzolini di cento anni fa, alla vigilia del cinquantenario dell’Unità del 1911. Allora, la monarchia e il governo di Giolitti investirono molto sul “giubileo della patria”, culmine del processo di costruzione nazionale del Risorgimento. Ma anche allora, come si è visto, il paese e la politica sembravano in acque torbide secondo un illustre osservatore, come Prezzolini. C’erano due Italie – scriveva il meridionalista Giustino Fortunato: quella europea e quella africana (il tema delle due Italie è una costante nazionale). Ma anche due possenti forze sociali esterne alla costruzione nazionale: il forte movimento socialista, realtà politica nuova nel paese, aggregante un mondo marginale attorno all’idea di redenzione sociale; l’antico mondo della Chiesa che, con l’Unità, aveva perso gli Stati pontifici e il quadro tradizionale della cristianità, ma si era ristrutturato come movimento cattolico e con un episcopato unito attorno al papa.
Il Risorgimento, stagione travagliata per la Chiesa, era stata però un’occasione in cui il cattolicesimo nazionale si era ristrutturato, nonostante la secolarizzazione e laicizzazione della società. Mai, nella storia religiosa italiana, il papa aveva potuto nominare direttamente, come fa con il Regno, i vescovi italiani. La sua figura, da Pio IX ai suoi successori, appare come il gran riferimento per il popolo cattolico, vero primate d’Italia (come recita uno dei suoi titoli). Il generale de Gaulle, con la consueta perspicacia, avrebbe parlato del papa come un sovrano morale in Italia.
Con una storicizzazione epica del primo cinquantenario, si rivestiva quella che era stata la rivoluzione diplomatica di Cavour, sorretta dai mutati equilibri europei, invece che una rivoluzione nazionale: la storia – diceva Cavour – “a l’habitude d’improviser”. Del resto l’Unità era avvenuta unendo mondi divisi da ben più di un millennio: un matrimonio – scrive Cafagna – tra una piacente vedova con molti figli e debiti con un impiegato onesto e agiato, che vede come gli altri paesi europei siano unitari e pensa che sia il suo momento. Storia di un dualismo tra un Nord gravitante verso l’Europa centrosettentrionale e un Sud antropologicamente mediterraneo, ma con la presenza di tanti altri elementi che sfumano il dualismo in una multipolarità. Tanti antagonismi interni – giudicano alcuni studiosi – hanno reso l’Italia flessibile. Ma non sempre gestibile.
Identità e missione