CRIMINALI NELLA GLORIA.
EDITORIALE
La violenza è un fenomeno difficile da pensare. Forse – come si potrebbe supporre – perché costituisce un luogo dell’irruzione della cieca realtà, priva di mediazioni simboliche: la violenza sarebbe un sottrarsi al linguaggio, e il linguaggio faticherebbe, proprio per ciò, a comprenderla nelle forme che gli sono proprie. Ma come spiegare – allora – la violenza delle parole? Il discorso del dittatore? Quale strano fenomeno sarebbe questo linguaggio senza linguaggio (eppure, talora, purtroppo così persuasivo e retoricamente efficace)? O forse la violenza non si lascia pensare facilmente, perché costituisce un altro mondo, che è difficile decifrare standone fuori. Un po’ come la teologia difficilmente riesce a pensare il proprio oggetto, se non è sostenuta dalla fede, sarebbe difficile pensare la violenza se non in una – deprecabile – circolazione di andata e ritorno con l’esperienza stessa della violenza (fatta e/o subita). La violenza sarebbe dunque un oggetto che sarebbe forse meglio non pensare affatto, un po’ come accade ai giudici di Platone, che – vecchi come i bambini – sono arrivati fino all’età adulta senza sospettare nulla del male e, in forza proprio di questa loro estraneità, possono giudicare i colpevoli senza la minima simpatia, con la gelida – e violenta – freddezza del bene. Per tutti questi motivi, un discorso sulla violenza sarebbe esso stesso sospetto: di inutilità, da un lato; di complicità, dall’altro.
Il paragone con la religione lascia però forse intravedere qualcosa circa l’essenza della violenza, e non solo perché violenza e religioni spesso concrescono insieme. La violenza potrebbe essere un modo di essere Dio. Vi sarebbe un nesso tra gloria e violenza. L’atto violento (anche di parola, o di pensiero) potrebbe essere una sorta di elevazione; di interruzione della mediazione totale, di modo che qualcosa – qualcuno – venga innalzato nel suo splendido isolamento. La gloria del criminale.
La violenza guarderebbe insomma i fenomeni contro-luce, facendoli spiccare fuori dal legame (ontologico prima ancora che sociale) con gli altri vicini, dalla trama di relazioni, dalla stessa connessione dello spazio e del tempo (l’atto violento avviene sotto vuoto di spazio e di tempo: in un “ora”, che è sempre o che è mai; in un qui disorientato, in uno spazio privo di coordinate), protestandone il carattere assoluto. Sarebbe uno dei pochi luoghi oggi disponibili di esperienza dell’assoluto, e tra i più accessibili per giunta.
L’interruzione del legame, del nesso totale, è in fondo un sinonimo di follia, e la violenza viene spesso accostata alla follia, come nelle cosiddette stragi della follia. Ma c’è un modo mite di isolare (o elevare) i fenomeni, come ce n’è uno violento. La lettura contro-luce del fenomeno come assoluto, strappato dalla rete dell’essere, ha in fondo i suoi buoni diritti. La stessa affannosa ricerca della “particolarità” (o dell’unicità), che la società dell’immagine incentiva fino al parossismo, nasconde il desiderio – a suo modo prezioso (ma che può appunto essere violento) – di uscire dall’anonimato, di stare in disparte.
Questo essere-a-parte (o a sé), e se si vuole questo feticismo, è l’opera dell’amore e della violenza, perché della gloria. Nell’amore l’altro rappresenta sempre un’eccezione. Creiamo, ogni giorno, piccoli piedistalli. Questa elevazione (dei gesti dell’altro, delle parole dell’altro…), che non a caso può talora degenerare nella violenza (il delitto passionale), ha pure un significato positivo, se – come fanno i bambini con i calciatori – produce stelle, illumina e innalza un pezzo di mondo. L’opera della violenza sarebbe dunque simile all’opera dell’amore. Questi fenomeni sarebbero accomunati dalla ricerca di gloria, e la gloria sarebbe una elevazione del fenomeno, una separatezza, una luminescenza. La violenza sarebbe un modo per celebrare le cose, e non solo – come sempre si dice – per nientificarle. Ci sarebbe un nesso intrinseco di violenza e celebrazione.
Le violenze, sono celebrazioni. Nella violenza, sono in fondo il sacerdote di me stesso, sacrifico a me stesso: mi sdoppio in un soggetto e in un oggetto di liturgia: faccio la fatica di portarmi su, servo me stesso in quanto trionfatore.
Ma se davvero fosse così, resterebbe da chiedersi che differenza c’è, nell’ipotesi, tra forme opposte – e incompossibili – di celebrazione. Nella mitezza, che è la forma del carattere più precisamente opposta alla violenza, non vi sono, forse, celebrazioni. Ma se vi fossero miti celebrazioni, qui la glorificazione, che implica sempre un irrigidimento, non avverrebbe senza una simultanea fluidificazione (che può assumere qualche volta la forma dell’ironia); qui l’uscita dal nesso di scambio, dovrebbe essere un modo della contemporanea re-immissione nell’intreccio di rapporti e relazioni. La gloria, congiunta alla mitezza, sarebbe dunque sì un’interruzione del respiro – un interrompere lo scambio – che immetterebbe però nella circolazione: una svolta o un’alternanza del respiro (Celan); appunto, un’immissione. La differenza sarebbe dunque tra due forme di gloria: quella che afferma e quella che nega lo scambio, fosse pure solo di scorcio. È così forse nel Nous di Plotino, dove ogni Idea è una pepita, separata dal flusso d’oro delle parole solo a misura della sua coincidenza con esso (l’Intelletto, è un’apnea che dà il respiro); non è così nel sadismo, in cui la glorificazione del padrone (della padrona) postula lo scambio solo per revocarlo.
C’è qualcosa di marziale nelle celebrazioni, qualcosa di violento nelle parate, o anche solo nel gioco dei soldatini. C’è qualcosa di militare (di feticistico) anche nella filosofia, che eleva alla gloria parole numinose, che svettano come bandiere di reggimenti o di corpi d’armata: essere, essenza, sostanza…
Occorre dunque che i filosofi siano violenti, i violenti filosofi? Forse. Quella tensione, per non dire quel crampo, che occorre anche per la violenza, è cosa buona, perché in fondo le cose vogliono essere sole, e Dio prima di tutti (non avrai altro Dio all’in fuori di me/Der Einzige [l’Unico]). Come, dove, attraverso – anche – quali concreti provvedimenti questo desiderio di gloria possa girare – vale a dire confermarsi e superarsi – in un desiderio di bene, anziché in un desiderio di male, è la questione.
Enrico Guglielminetti
Numero 03 – Violenza
Ivano Rossi
%e %B %Y at %H:%M
Le parole del Direttore Guglielminetti sono bellissime, ma dure. Vanno come contemplate. Così emergono, a poco a poco, come nel silenzio..Perchè é proprio vero che cè un crinale sottile fra la violenza e l’amore. E’ comunque questione di qualcosa che viene prima di noi ed é incontrollabile.Come riconoscere questo “prima”? Come operarvi il “bene”?Come la ragione può essere in apnea ed insieme respirare? O la ragione si arrende a questo prima nella forma della mitezza o si é sadici.