Violenza, vis, vizio, evitare: c’è qualcosa, nell’etimo indo-europeo wir, che è nell’ordine della forza, dell’attacco, della violazione e della difesa. È in questione un attacco, un non rispetto verso qualcosa che merita omaggio: il sacro, la legge, il tabù, i genitori.
Questo “qualcosa”, secondo certe movenze del pensiero antico, ma anche secondo le risorse e le rotture della modernità, non è solo un’alterità, una realtà più grande di fronte a cui chiniamo la testa, ma è una questione che occulta un nascosto, una duplicità incontrollabile. Il “più grande” non è semplicemente un esterno, un “fuori di noi”, ma sembra riguardare il rapporto fra noi e la nostra origine. Questa alterità in questione nella violenza occupa una frontiera che non è esterna al soggetto, possiamo dire all’io, ma attraversa la sua struttura.
La realtà dell’io, secondo il percorso della modernità, risiede nella coscienza, ambito in cui il soggetto sa e possiede se stesso, ambito insieme intimo ed accogliente, di sé e dei propri atti.
La coscienza come ciò che identifica l’io è pensabile, nella forma di pensiero moderna e post-moderna, come un ambito puro, integro, per qualche aspetto precedente, in termini cronologici e ontologici, l’insidia e la minaccia del divenire, dell’alterità, della perdita.
La forma, conoscitiva, della coscienza, pur nel suo limite e a partire dal suo limite, è pensabile come incontaminata. Incontaminato, nel lessico religioso e filosofico è termine che accenna alla totalità dell’io, prima e al di là della rapina del nulla e della rapina dell’altro.
La “violenza” è, in questa prospettiva, ciò che si radica in un “non puro”, ciò che contamina, che non rispetta questa integrità: morale, esistenziale, politica, religiosa. La società antica aveva i suoi riti: i riti di purificazione: ad esempio le acque lustrali dei Romani.
Il legame sociale per un verso prevedeva la trasgressione, la violenza, come suo ingrediente da vincere, per altro verso tale vittoria piegava la violenza in un rinnovato rapporto del soggetto, esistenziale e politico, con se stesso: il parcere victis, il foedus: il perdono e il patto.
Il soggetto moderno, sulla scia e come esito del soggetto moderno del sapere (da Cartesio in poi) non trova, nella sua struttura, queste sponde e queste risorse: il più grande, l’altro, il non proprio sembra abbandonato a un rapporto di deriva con se stesso. L’estraneo, il nemico, il minaccioso, sembra generarsi dal di dentro dell’io in pura perdita.
La violenza nascosta