Pochi giorni prima di mettere mano a questo contributo, a poca distanza dalle nostre coste, si è consumata un’altra tragedia di migranti. La cronaca riportata dai giornali racconta di una scena apocalittica. Uomini, donne e bambini, da giorni su un barcone in avaria senza cibo né acqua, chiedono disperatamente aiuto. Una disperazione accresciuta dall’aver visto morire sotto i propri occhi diversi compagni di viaggio (i cui corpi sono stati buttati in mare perché già in putrefazione), ma soprattutto dall’indifferenza delle imbarcazioni che incrociavano in quel tratto di mare, tra cui le grandi navi dell’Alleanza atlantica. Tra le testimonianze raccolte, oltre a quella di alcuni superstiti, colpisce in particolar modo quella di un militare, impegnato nelle operazioni di soccorso in mare, che si chiede il senso del comportamento incredibile o paradossale delle navi militari della NATO che, impegnate in Libia (in nome della democrazia e dei diritti) per salvare e sottrarre i civili libici alla violenza dal regime di Gheddafi, non sono invece intervenute in mare per salvare concretamente la vita di alcuni di quegli stessi uomini.
È proprio da questo paradosso o interrogativo che vorrei partire per tentare di iniziare a decifrare quanto sta accadendo oggi intorno a noi, nel Mediterraneo, e nel cuore stesso di un’Europa, o di un Occidente che si definiscono civili. In questo come negli altri episodi di cronaca che hanno come protagonisti centinaia di profughi e che ormai quasi quotidianamente si susseguono assistiamo appunto all’assunzione da parte della cosiddetta comunità internazionale di un comportamento contraddittorio, o quanto meno strabico: da una parte, per legittimare l’“intervento umanitario”, ovvero per giustificare il ricorso all’uso della forza militare, ci si appella alla necessità di tutelare i diritti umani delle popolazioni “oppresse” (ed è proprio questo rinvio a legittimare, nel lessico delle cancellerie occidentali, la possibilità di qualificare come “umanitaria” una guerra, con tutte le violenze e le vittime che essa comporta); dall’altra, per gestire l’emergenza anch’essa umanitaria dei profughi qualsiasi riferimento a questi stessi diritti umani viene di fatto messo disinvoltamente tra parentesi. I governi europei, e l’Italia in prima linea su questo fronte, ricorrono o a politiche estreme di respingimento o alla pianificazione e attuazione di politiche di internamento in veri e proprio campi di concentramento, sia pur sotto la diversa denominazione di “campi di accoglienza”.
Non è mia intenzione in queste pagine considerare la questione da un punto di vista strettamente politico, provando a verificare se dietro l’intervento militare ci siano sempre determinati interessi politici ed economici. Si tratta in effetti di un’ovvietà, che non presenta per questa ragione nessuna rilevanza filosofica. E non è mia intenzione neppure risollevare l’annoso problema di appurare, in un’ottica multiculturalista, se quelli che vengono presentati come diritti umani universali siano in realtà solo le concrezioni storiche di culture determinate e circoscritte. Il mio intento è piuttosto quello di tentare di portare il discorso a un livello di interrogazione filosofica più radicale e provare a chiedere quale sia il meccanismo concettuale o teorico che fa sì che il richiamo ai diritti umani universali coincida non solo con la messa tra parentesi dei diritti politici effettivi, ma anche e soprattutto con il misconoscimento dell’umanità, dell’appartenenza all’umanità degli ipotetici portatori di tali diritti.
(Pre-)Politiche dell’umano. La riduzione all’elementare tra diritti e violenza