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L’amore come istituzione totale. Un modello interpretativo della violenza contro le donne

Num°03 VIOLENCE

Catania, 30 marzo 2009, ore 10 di mattina. Il 113 riceve la telefonata di una voce maschile: “Venite, presto, ho ucciso mia moglie”. La polizia accorre in uno stabile nel centro della città e trova il corpo di Maria Pia Sciuto. La donna, 41 anni, è stata accoltellata.

Due familiari della vittima si autoaccusano del crimine. Il marito, Giuseppe Castro, di 35 anni, e il figlio maggiore della coppia, di 15 anni. La polizia trova il ragazzino in ginocchio, accanto al corpo della madre. È in stato di shock e ripeterà più tardi anche al magistrato di essere l’assassino. Tuttavia molti dettagli da lui forniti non coincidono con la dinamica del delitto. Quella mattina Giuseppe era rientrato a casa presto, dopo alcune commissioni. Trova la moglie davanti al computer, sta chattando su internet. Iniziano a litigare. La situazione non è insolita; i vicini e la suocera di Giuseppe, che abita nell’appartamento accanto, riferiscono delle liti frequenti tra i coniugi soprattutto negli ultimi due anni, da quando lui aveva perduto il lavoro. Maria Pia, figlia di un imprenditore edile della città ed economicamente indipendente dal marito, lo accusava di essere un fannullone incapace di trovare un’occupazione, e veniva sostenuta anche dalla madre che non aveva mai apprezzato il genero. Giuseppe replicava con urla e crisi violente di gelosia a causa dell’abitudine della moglie di passare molte ore davanti al computer.

È Giuseppe che afferra un coltello da cucina e aggredisce la donna. Si accanisce sull’addome e sulla gola. Il corpo è quasi decapitato. Dopo un lungo colloquio con il magistrato, il figlio di Maria Pia ammette la sua bugia. Voleva fare in modo che il padre “restasse a casa a fare il capofamiglia” per le due sorelline, andando in carcere al suo posto. Le liti e le accuse reciproche tra genitori avevano segnato il ragazzo che da un mese non andava più a scuola e si occupava spesso delle bambine, giocando con loro, accompagnandole a scuola e accertandosi che, prima di entrare, avessero le merendine per la ricreazione.

Questa tragica, ma non inusuale, storia di ordinaria follia condensa molti tratti di uno dei fenomeni violenti più frequenti in Italia: la violenza domestica o “di prossimità”. Benché l’Italia, in una prospettiva comparativa, non sia un paese violento, la violenza domestica è un fenomeno molto diffuso e registra dati anche superiori alla media dei paesi dell’Europa occidentale. Ecco un motivo per il quale occuparsene.

Nella storia di Maria Pia e Giuseppe, gli elementi ricorrenti sono: 1) la lite coniugale che si protrae nel tempo e sfocia in aggressione dell’uomo contro la donna; 2) l’aggressore che “perde la testa” e uccide la donna; 3) l’overkilling sul corpo della vittima; 4) lo sbiadimento della figura paterna dentro il nucleo familiare; 5) la perdita di status socio-economico dell’uomo.

I primi tre elementi sono tipici di quasi tutti gli eventi di violenza familiare e – come cercherò di mostrare – indicano una chiara dinamica microsociale. Gli ultimi due sono ricorrenti in uno dei modelli di violenza contro le donne, nel quale la figura maschile è debole o assente. In effetti, vi sono alcuni modelli di violenza contro le donne nella società italiana; essi nascono dalla combinazione di variabili come il tipo di relazione e lo status socio-economico dei partner, il livello di tolleranza alla violenza da parte della comunità a cui essi appartengono, insieme alla maggiore o minore efficacia delle politiche di prevenzione e cura messe in atto localmente nei confronti di questo fenomeno.

Lo scopo di queste pagine è di proporre un modello teorico articolato e capace di spiegare la violenza di prossimità, in particolare quegli eventi in cui, all’interno di una relazione di amore, l’uomo è aggressore e la donna vittima. Fino ad oggi la sociologia ha utilizzato l’equazione potere-violenza per spiegare tali eventi. La violenza contro le donne in ambito familiare è stata portata alla luce dai movimenti di emancipazione femminile che, denunciando l’asimmetria dei ruoli attribuiti a uomo e donna nella società e nella famiglia italiana, spiegavano la violenza domestica come conseguenza del potere maschile. Negli anni ’70 tale spiegazione era plausibile; quarant’anni dopo, essa trascura i cambiamenti avvenuti nella condizione della donna e nella parallela evoluzione dell’identità maschile. La violenza “di genere” (scrivono ancora oggi alcuni studi) è esercitata dagli uomini “come classe” al fine di mantenere i vantaggi che essi traggono dalla dominazione femminile. Ma il genere non è una classe. Tale impostazione non offre alcun vantaggio euristico; ciò che dobbiamo spiegare non è perché gli uomini sono violenti, bensì perché e quando alcuni uomini lo sono.

L’amore come istituzione totale. Un modello interpretativo della violenza contro le donne

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